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RECENSIONE  A “IL GIUDICE FAUSTO E L'AVVOCATO MEFISTO. STORIA DI STRAORDINARIA CORRUZIONE” DI GENNARO FRANCIONE  del prof. Nicola Bietolini, saggista, ricercatore, docente, traduttore, poeta e redattore (altre informazioni sul prof. possono essere prese  su http://www.literary.it/ali/dati/autori/bietolini_nicola.html) Per informazioni sulla messinscena del Faust di Francione.

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NICOLA BIETOLINI

 

IL CODICE COME CHIAVE DELLA CONOSCENZA. LA RISCOPERTA DELLA COSCIENZA UNIVERSALE NELLA FARSA DRAMMATICA IL GIUDICE FAUST E L’AVVOCATO MEFISTO DI GENNARO FRANCIONE

 

Tra le numerose ideazioni teatrali che si rifanno modernamente e liberamente al mito di Faust, la pièce di Francione si distingue per la insolita ma stimolante  contaminazione del registro classico della sete irresistibile di conoscenza arcana e potente, afferente alla tradizione gnostico-occultistico-magica, e della linea tematica etica e morale della salvezza/ rettitudine, già delineata nel dramma goethiano, che tuttavia assume in questa intrigante ed eslege rilettura una connotazione scettica e disincantata proiettata verso la nozione comune di ‘conoscenza’, travisata inizialmente come ricerca chimerica e vana della imperscrutabile giustizia divina.

La acquisizione di sapere, estrapolata dalla archetipica matrice religiosa e teologica che contraddistingue la sfrenata e temeraria sete di consapevolezza del protagonista goethiano, tende a slittare, per effetto della posizione relativistica e antidogmatica assunta dallo scrittore giudice e dal suo parzialmente affine alter ego teatrale, sul terreno epistemologico di un solido pragmatismo naturalistico, indirizzato verso la sfera tutta terrena e materiale della regolamentata legislazione  forense e della ratificata norma giurisprudenziale, cioè, in una sola parola, dell’imparziale ed equanime codex iuris, fondato su presupposti epistemologici ma  sostanziato di fermenti umanistici, principo di diritto universale ed extraideologico, naturale e positivo ad un tempo.

Fin dalla prefazione Francione stabilisce alcune corrispondenze precise tra il suo testo ed alcune fonti più o meno note, ammettendo l’inevitabile raffronto con Goethe, seppur distanziato sullo sfondo della simmetria strutturale di tutte opere di finzione che ripropongono il motivo dello scienziato insoddisfatto della dottrina empirica e disposto a valicare i limiti della natura umana, dannandosi con il patto col diavolo. Tali Faustdichtungen partono dalla ribellione egocentrica ma, almeno, in parte, animata da nobili propositi filantropici e pure aspirazioni speculativo-metafisiche, che induce l’uomo di scienza e cultura superiori, in questo caso trasformato in giudice immalinconito e sfiduciato, ad eludere la barriere razionalistiche ed empiriche ordinarie, proclamandosi ricercatore di verità, assetato di gnosi trascendentale, più che di piacere e di potere.

Il postulato basilare del conflitto dialettico ma preordinato tra etica e immoralità configura una dimensione metatestuale che fa riferimento a Ugo Betti ed al suo teatro problematico e sociologico di indagine, dalle sfaccettature prettamente etico-realistiche e dalla costante, minuziosa ed onnipresente ambientazione processuale.

Questa componente strutturale subordinata si innesta, tuttavia, nella creazione scenica di Francione all’interno di una cornice rappresentativa deliberatamente antirealistica ed antitradizionale, che si profila all’orizzonte in una vertiginosa ed arrembante sequenza scenografica di quadri iconografici immaginari e metaforici, depurati di scorie mistiche e occultistiche, neutralizzate dalle marcate interferenze giullaresche e fantasmagoriche originate dalle ripetute incursioni provocatorie ed urticanti di movenze filmiche e cinetiche tipiche del teatro di burattini. Queste microsegmentazioni sceniche accelerate, favoleggianti ed ipertrofiche, rilevano in forma puramente illusoria e dissacrante le solenni e grandiose sezioni delle immaginifiche e bizantineggianti teofanie e demonologie goethiane, propriamente soprannaturali o diaboliche, affrescate nello stile icastico tipico soprattutto della seconda parte del poema drammatico Faust.

Prevale nel sostrato postmoderno e decostruttivo di questa moderna riscrittura transvalorizzante (in senso genettiano, come esplicitato in Palinsesti), la contaminazione mistificante e demistificante di spiazzanti ramificazioni allusive classicheggianti; ad esempio il ruolo di ruffiano assunto dall’emissario satanico  riecheggia il mito eroico e puro di Cyrano, tuttavia riflesso con grottesca deformazione beffarda nel suo contrario: l’ignobile stratagemma attuato da Mefisto per prestare la voce all’impacciato e attempato Faust e conquistare in sua vece la avvenente ed irraggiungibile Margherita. Si infittiscono le calcomanie traslucide ed iperboliche di citazioni poetiche e di motti storici memorabili, che conferiscono allo spettacolo pantomimico una risoluzione rappresentativa illusionistica dalla luccicante caratura  ludico-spettacolare, addizionata di ingredienti oniricheggianti e allucinatori di stampo allegorico-figurale, mirati a comporre un caleidoscopio variopinto e sgargiante di schegge realistiche e deliri stupefacenti, in misura più sobriamente attenuata e meno preziosamente cesellata del capolavoro goethiano, tuttavia godibile per la sua confezione drammaturgica istrionica e spumeggiante, mai banalmente naturalistica o documentaria.   

La scansione è tripartita e presenta un prologo denso di allusioni alla scena iniziale del Faust I, nella prima versione, con l’esclusione del Prologo in cielo, evidentemente stridente con gli scopi attualizzanti e didascalici e la morale immanente e pragmatica del progetto edificante e illuminante sulla corruzione straordinaria (come recita il sottotitolo). Il prologo escogitato da Francione risulta   ironicamente giocato sull’ambiguità tra la interferenza subdola del linguaggio superstizioso e mistificante e la inflessione semantica forense, con una sottotraccia  trascendentalizzante e disumanizzante. Lo studio universitario polveroso e austero, ma pur sempre intriso di accademica solennità, dell’insoddisfatto, ma paludato Doctor Faust viene ripensato in proporzioni più ridotte e demitizzate, come modesta e dimessa camera da letto. Questo ambiente spoglio di retorica e di prosopopea si attaglia alla figura esemplare e didascalica dell’integerrimo, onesto e idealista giudice in pensione, intento a lamentarsi della sua impotenza gnoseologica e morale, mentre si isola dal mondo esterno giocando per l’ennesima volta ad un diversivo solitario di carte, pallido surrogato ludico dell’agognata restaurazione dell’ordine etico equanime ed inflessibile del diritto positivo, naufragato miseramente e soccombente a potenze arcane del macrocosmo mondano e politico.

La comparsa dell’agente diabolico avvocatesco Mefisto, la cui carica persuasiva ed abilità oratoria evoca angusti e tetri corridoi delle stanze del potere giudiziario piuttosto che far balenare gironi infernali infuocati e terribili, distoglie il giudice dal suo sonnolento soliloquio e pone l’accento sulla confluenza di grigiore burocratico, maleficio satanico e illusione secolare, tutte istanze negative e tentatrici illustrate dalla diversa colorazione dei suoi capi di abbigliamento ed accomunate dalla latente valenza antiumanistica e antispirituale. Dopo le prime schermaglie, nell’intreccio stereotipato ma credibile di tesi ed antitesi teoriche sui metodi giudiziari, si insinua lestamente la corruzione assoluta e premeditata, ammantata di ammaliante esperienza alternativa e paradossalmente trasumanante, in grado di sperimentare il fondo dell’abiezione per risalire imperiosamente, munito di una corroborante ed immunizzante cognizione diretta del peccato, verso la corrente generatrice della umanità solidale e concorde della palingenesi.

Il Faust di Francione condivide con altri modelli letterari analoghi, quali gli omonimi protagonisti dei drammi di Lenau e di Weidmann, una chimerica, presuntuosa ambizione di adoperare il male per il bene ed ingannare il diavolo, lasciandosi persuadere supinamente ad assecondare le argomentazioni capziose del diavolo che rinnega l’ordine naturale, per poi accorgersi tardivamente di essere sprofondato nell’abisso dell’aberrazione mefistofelica e di essersi trastullato vanamente nella fallimentare fola di volgere a vantaggio dell’umano’ il ribaltamento innaturale e sedizioso della normativa ‘antropologica’ e ‘teologica’ codificata e concordante con la scaturigine solidale e filantropica dell’essenza umana, a beneficio di una traumatica e traviante traversata negli inferi della degradazione pervertente e della ingiustizia eversiva .

L’avvocato al servizio di poteri mafiosi e sulfureo vicario diabolico postmoderno si contamina subdolamente con l’innocuo e favoloso genio della lampada, autolimitando per un’astuta strategia di minimizzazione apparente, il proprio potenziale smisurato di influenza malefica, circoscrivendo la gamma inesauribile di opzioni magiche e occultistiche al minimo indispensabile. Si impegna,  infatti, a fronte della virtualità inesauribile di incantesimi e sortilegi illusori e mirabolanti esibita dall’omonimo agente diabolico goethiano, a realizzare solo tre desideri. Il Faust-Aladino ne sceglie due ingenui e classicamente letterari, sostanzialmente innocui e ininfluenti, vista la loro categorica appartenenza al mondo evanescente delle fantasie meravigliose di sublimazione del miraggio primordiale rimosso di onnipotenza, cioè la facoltà alchemica di trasmutazione del metallo in oro, delirante smania di stampo cagliostresco, del tutto inattendibile e fuori moda, disabilitata dall’autorità postmoderna, demitizzante e empiriocentrica del drammaturgo, ad esercitare  l’influsso malefico della trasmutazione materiale sulla costellazione di valori spirituali del soggetto stregato, e l’elisir della eterna giovinezza, aurorale, chimerico mito di rigenerazione biologica e vitale, che non tange minimamente la sfera ineffabile della palingenesi interiore e ontologica. La cupidigia della conoscenza assoluta e divinizzante, procreativa e generativa, invece, si rivela indicatrice di un’allarmante bramosia innaturale e sacrilega di superiorità schiacciante e schiavizzante sul resto dell’umanità ancorata alla sfera della normalità terrena.

La sorte compromessa di Fausto viene rimessa in discussione, grazie all’apporto risanatore offerto da una nuova configurazione di Elena, ridotta al livello di una donna comune e prosaica, ma involontariamente dotata della facoltà amorosa di incidere positivamente sulla vicenda, anche se declassata dalla incarnazione solenne e ieratica della icona muliebre classica, spogliata di rango regale e dequalificata studiatamente come vecchia amante abbandonata ma segretamente fedele e dotata del potere redentore, che la tradizione del mito attribuisce a Margherita. Si assiste, quindi, ad una netta devalutazione marginalizzante della originaria figura candida e sacrificale di Margherita stessa, che si mantiene giovane e bella, ma viene privata di spessore spirituale e relegata ad un ruolo complementare di seduzione erotica superficiale e parentetica. Tale smitizzazione, per altro, sortisce l’effetto innegabilmente confortante di preservarla dalle insidie tentatrici della procreazione diabolica e dal rischio conseguente di compiere l’infanticidio rituale per riparare alla profanazione inconsapevole ma scellerata del credo teologico.

Il vorticoso rincorrersi delle saettanti e rutilanti alchimie sceniche del filone principale si carica di movenze burlesche e irriverenti nella loro accentuata drammaticità, collocabili in una sfera temporale progressiva e logicamente sequenziale discernibile ancora come realistica: la corruzione del magistrato nel processo a trafficanti di droga e le sue conseguenze infamanti, culmina nella regressione protopsichica alienante e spersonalizzante, attivata dal consumo ipertrofico di sostanze stupefacenti ed allucinogene.  A questo troncone portante si appoggiano e si intrecciano molteplici piani rappresentativi irrealistici e fantasmagorici. I frammentati segmenti teatrali, pirotecnici e sfasati, procedono a ritmo spiraleggiante e sono destinati ad incastrarsi accidentalmente, con destabilizzante asincronia narrativa, con le ultracronologiche e parodistiche serie di  icastiche e pittoresche visioni infernali, presenti nella trama di motivi mitici originaria: il sabbath delle streghe e demoni, le apparizioni sataniche, immerse in una allucinata atmosfera antirealistica che sollecita deliberatamente nella messinscena del copione il ricorso alla personificazione burattinesca dei diavoli. Tale dispositivo fittizio e meccanico di rappresentazione degli scenari psichici di Fausto mediante automi e non attori, relega gli eventi miniaturizzati dal goffo dimenarsi dei burattini su un palcoscenico microscopico al rango di inconsistenti allegorie deliranti, in omaggio alla tradizione popolare del Puppenspiel, genere di rappresentazione grottesca e satireggiante che si mantiene nel paraletterario filone popolareggiante e contrassegna le riprese burlesche e dissacranti del mito faustiano, secondo una consuetudine teatrale invalsa anche nel Settecento, conosciuta e apprezzata dallo stesso Goethe.

L’andamento tortuoso a doppio binario alternato, realtà prosaica e fantasmagoria mirabolante, viene omogeneizzato e saldato in una direttrice poetica organica  e in un’assiologia univoca dal colpo di scena salvifico che ricongiunge in armonica sinergia il livello affiorante della trama processuale e giudiziaria con la sua iperbolica e smitizzante cifra sotterranea, simbolico-figurale e metafisico-pedagogica, fino ad incanalare in uno scioglimento positivo il sedimentato e sinuoso percorso introspettivo e retrospettivo del protagonista; icona-feticcio della contemporaneità disumanizzata, che trapassa in un incalzante e travolgente ritmicità icastica, più cinematica che teatrale, dalla dannazione abissale e dall’abbrutimento incosciente verso la sua riscattante meta salvifica. Giunge inattesa e tribolata la resurrezione interiore e la riappropriazione in extremis della dignità civile di Faust, che recupera e chiarifica in un’ottica lucidamente razionalistica e cogitativa l’impalpabile sostrato panteistico-spinoziano del diritto individuale naturale alla felicità solidale ed ecumenica.

La redenzione umanissima ed autosufficiente del rinsavito uomo di legge è scandita in modanature sceniche e strutturali aforistiche e intellettuali di perspicua intensità etica e morale. Faust riesce a scostarsi in tempo dal baratro della depravazione cinica e della assuefazione narcisistica alle droghe del potere e della illusione, nella misura in cui ritorna giuridicamente e coscientemente padrone di se stesso e avverte nuovamente la dimensione problematica e limitante dell’etica terrena soggettiva, che presenta invariabilmente la costante della singolarità dell’esistenza nel suo variabile interagire con la forza aggregante e accomunante della società. Francione si prodiga nel districare questo nodo escatologico cruciale e apparecchia  un’ingegnosa e sagace inventio postmoderna che fonde la mirabolante imprevedibilità menippea e la aristofanesca agnizione riequilibratrice.  Elena confessa che Mefisto è il figlio concepito dalla sua antica relazione con Fausto e lo sgomento ma sollevato ex giudice si riappacifica con il presunto agente demoniaco, consentendo all’autore di isolare e rendere prevalente la componente naturalistica e verosimile dell’intreccio, cioè la agnizione riparatrice della vicenda giudiziaria mediante il costituirsi espiatorio di entrambi, rei confessi, e purificati dalla reviviscenza catartica dello Streben secolarizzato, de-misticizzato e ricondotto all’imperativo categorico kantiano della morale oggettiva. Con perfetto sincronismo rappresentativo, si affievolisce fino a dileguarsi l’ormai soppiantato e inservibile  contorno soprannaturale e occultistico: svanisce improvvisamente la filigrana onirica del fantomatico e forse immaginario patto diabolico, evapora nella fumisteria superstiziosa la già tenue sostanza favolosa  delle evocazioni e stregonerie infernali.

La nascita improvvisa da un uovo cosmico, che apre uno squarcio rivelatore del progetto demiurgico dell’autore onnisciente, di una bambina non generata occasionalmente ma nata dallo spontaneo accordarsi procreativo delle menti e dei corpi in sintonia reciproca dei due genitori assume una allusiva valenza propiziatoria. La Regale Fanciullina si configura nella sue breve vita scenica, seguita da un’estemporanea e divagante escursione nel mondo reale, come l’equivalente eudemonico consacrato, più concreto e meno etereo, più durevole e più incisivo, del fragile e chimerico, instabile e irredimibile Iperione, concepito, secondo il dettato goethiano, in un culmine di estasi visionaria da Faust e la imago animi di Elena, ma fatalmente soccombente alla esiziale evanescenza insita nell’iconismo figurale ed immateriale della fantastica idealità in-creata che ne permea la tenue ed immatura parvenza essoterica.

Il conclusivo trascorrere della bambina profetica di una novella età aurea, permeata di fertile e virtuoso pan-umanesimo, dal palco alla platea, per scomparire in un luogo imprecisato dell’edificio teatrale non adibito alla rappresentazione, travalica i confini della superfetazione allegorica della procreazione spirituale ed immateriale insita nella genesi imperfetta e velleitaria dell’evocato, ma rigettato Homunculus, etereo fino a limiti della inconsistenza terrena e, quindi, ontologicamente incompleto.

Mediante il movimento leggiadro e il sorriso radioso in direzione del proscenio, la spensierata ed innocente Fanciullina, simbiosi di vitalità prorompente e di adamantina incoscienza, messaggera di riconciliante armonia universale, si libra, sulla soglia labile e trascolorante tra ‘teatralità’ e ‘realtà’, tra ‘quinta di palcoscenico’ e ‘proscenio’, in una gaudiosa, evangelica ed augurale danza propiziatoria, dalle movenze aggraziate e giocose, rivolgendosi velatamente allo stuolo di spettatori effettivi che la contornano e la contemplano stupefatti, soggiogati dal fascino magnetico del suo rallegrante candore irenico, e suggerendo loro implicitamente la aperta e inesplorata traiettoria etica della liberazione universale dell’umanità dal gioco plumbeo ed ottenebrante degli interessi parcellizzanti e delle faziosità egemonizzanti.

Questo iter di ri-formazione escatologica e psicologica frastagliato e tumultuoso imbocca molteplici direzioni provvisorie e subisce svariate scosse sussultorie, scontando cadute rovinose e innalzandosi a vette numinose, ma resta focalizzato sull’escatologico traguardo finale auspicato dall’autore: coronare il sogno non necessariamente proibito di una comunità civile concorde e sinodale, unanimemente osannante alla inviolabilità autosufficiente della legge cosmica intersoggettiva e ultraempirica, meravigliosamente incontaminata dalle urticanti fratture autarchiche ed egocentriche, spalancatesi a ridosso della conflittuale e antagonistica degenerazione idolatrica post-edenica e colpevoli di dilacerare il tessuto sociale e di snaturare il senso autentico della presenza secolare dell’uomo.                                          

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