Città felice
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FRANCESCO PATRIZI  DA CHERSO

PATRIZI, la città felice

L'uomo, di commune consentimento de' filosofi, ha dell'essere suo due parti principali, l'una delle quali, che è l'anima, per universal opinione di tutti, come che pochi altri il contrario sentissero, essendo immortale ed incorrottibile, sola a se stessa è bastante, né d'altro aiuto di fuori, al suo mantenimento ha mestiero. Il corpo, che è l'altra, come cosa materiale, e di deboli parti composta, non è sofficiente egli solo alla propria conservazione, ma molte cose estrinseche a ciò gli sono necessarie; e primieramente, che l'anima di lui cura e governo si prenda; e poi, che per suo ristoramento, non gli manchi il mangiare, ed il bere, ed abbia da coprirsi contra i freddi e caldi, e contro l'altre qualità dell'aria che potessero fargli danno. E sia copioso di tutte quelle cose, donde si possono le predette cavare, come denari, possessioni, ricchezze ed altre simili. E con ciò sia cosa che queste l'uomo da se stesso non possa solo tutte quante acquistarsi, ma egli ha mistieri dell'aiuto d'altri uomini, però egli la compagnia de gl'altri uomini come cosa a se stesso buona ed utile, naturalmente desidera ed ama, e non gli è meno questo affetto proprio e naturale, che gli sia proprio l'essere risibile; e di tal modo, che chiunque non ama di essere e conversare insieme con altri uomini, o da piú che uomo è necessario che sia, o da meno; e come per antico proverbio si disse, che egli sia o Dio o bestia. E con ciò sia cosa che tutte le cose, che dal profondissimo gorgo dell'infinita bontà di Dio da principio sorsero, e in questo basso mondo si derivarono, una memoria di quel bene, che stando nell'essere ideale, dell'acque sopracelesti di quel gorgo sentivano, tiene bramose ed assetate di tal modo, che incessabilmente, e senza mai pigliar quiete, s'affaticano di ritrovare acque, che di là suso in questo mondo cadano, e l'ardentissima loro sete estinguano; per rimedio della quale ha voluto Dio, che dal predetto gorgo della sua bontà, nel mondo tanti rivi della sopraceleste acqua piovano, quante sono le specie dell'universo, acciocché ciascuna dal suo si possa largamente la sete cavare. E perché l'uomo, per la corrotta natura sua piú d'ogni altra creatura, da questa sete è molestato; e perché, dalla sua cieca volontà guidato, il rivo suo che dal cielo abondantissimo piú degli altri piove rarissime fiate, o non mai, ritrova, io mi sono deliberato di voler mostrare, a quelli che averanno occhio e voglia di seguitarmi, la strada, di ritrovare questo rivo, e di edificarvi una città sopra la quale egli continuamente cada, e delle sue felicissime acque la bagni. Dico, adunque, che desiderando l'uomo, sí come tutte l'altre cose create, il ben suo, lo desidera tale, che il desiderio suo in quello abbia riposo e fine (1) né possa continuamente desiderarne un maggiore, ch'altramente il desiderio suo sarebbe vano ed andrebbe la cosa in infinito. Questo ultimo, adunque, e sommo bene, nel quale egli si riposa, è la propria felicità dell'uomo, della quale maggior bene alcuno egli non si può in questo mondo acquistare. Ora, s'egli deve giamai possedere tanto bene, ed alla propria beatitudine pervenire, è mestieri che in sette cose (2), tutte all'uomo appartenenti, questo bene sia riposto; e primieramente nell'anima semplicemente sola; secondo nell'anima, per quanto ella il corpo governa; appresso nella medesima, per la cura, che ella ha delle cose, che estrinsecamente al corpo fanno mestieri; quarto, nel corpo per se stesso; quinto, nelle cose che al mantenimento di lui sono necessarie; sesto, in quegli istrumenti, che tali cose gli apparecchiano; ultimo, nel tempo del congiungimento dell'anima col corpo. Laonde saviamente Aristotele (3), avendo al predetto settenario riguardo, descrisse la felicità un'operazione secondo la virtú perfetta, senza impedimento, in vita compiuta, nel primo membro comprendendo le virtú tutte: le specolative, che sono dell'anima per sé sola, le morali, parte delle quali al corpo riguardano, come è la temperanza e la continenza; e parte alle cose serventi al corpo si stendono, quale è la liberalità, la giustizia, e simili, le quali virtú tutti i beni dell'anima ne' tre predetti gradi adempiono. Nel secondo poi egli abbracciò i tre beni al corpo, ed alle cose sue appartenenti, perciocché senza impedimento del corpo è colui che è sano, gagliardo, e agile a tutte quelle azioni, che a sua salvezza si richieggono. È privo d'impedimento parimente nelle cose attinenti al corpo colui, che ha abondanza del vivere e del vestire, e dell'altre necessità, non ha medesimamente impedimento ne gli strumenti che gli apprestano le predette cose, quelli che si ritrova aver copia di contadini, di servi, e di artefici, che 'l mangiare, le vesti, e l'altre cose necessarie gli apprestino. E questi sono i tre gradi al corpo, senza governo di anima, spettanti. Nella terza parte della diffinizione, che è quella in vita compita, si comprende il settimo grado, al corpo ed all'anima commune; imperocché colui solamente può divenir beato, il filo della cui vita è prolungato per tutto lo spazio del corso del vivere umano, perciocché se nella metà fosse tronco, non potrebbe egli per modo alcuno al rivo che detto abbiano arrivare. Laonde, se noi vogliamo, che l'uomo possa venire a bere dell'acque di questo rivo, è bisogno che noi, a tutto nostro potere, conserviamo intero e tenace il legame, col quale il corpo sta all'anima legato. Il qual legame altrimenti non si suole spezzare, che o per forza che l'anima ci ponga per romperlo o per violenza che gli faccia il corpo, o perché egli in corso di tempo si venga a infracidire. Ma potendo l'uomo, inanzi che fracido egli divenga, giungere al rivo di questo scioglimento, del tutto non parleremo. Si tacerà ancora di quello, che dall'anima si cagiona, avenendo radissime volte, e solamente ad uomini santissimi, e sarà nostro intendimento, per ora, di ragionare in torno alle cose, che potessero ovviare che questo rompimento per causa del corpo non avvenisse. Il che si potrà agevolmente vedere se noi discorreremo per le cose, per le quali la vita nostra si mantiene, e per le quali si distrugge. È opinione di Platone, di Aristotele e di tutti gli altri filosofi e medici, ed oltre ciò sensatamente si prova, che tanto tempo vive l'uomo, quanto l'anima sta col corpo legata, e l'anima tanto lungamente dimora con lui, quanto dura il vincolo, che insieme gli tiene ristretti, e questo vincolo sono gli spiriti, detti dai preallegati filosofi e medici, primi istrumenti dell'anima. Questi spiriti adunque nel corpo vengono a mancare, o perché in tutto non si generano, o perché doppo che sono generati, si corrompono. Non si generano per mancamento di sangue o di aere. Con ciò sia cosa che essi, della parte piú sottile del sangue e dell'aere inspirata si fanno. L'aere non ci può mai abbandonare, che se bene ci sia serrata la canna del polmone, l'aria, per l'arterie, dal cuore per tutto il corpo sí disperse, come che non in tanta copia, si tira; e se nello strangolamento l'uomo muore, ciò non è per privazion totale dell'aria; ma per troppo eccesso della calda qualità, che ne gli spiriti per soppressione del ventillamento sopraviene; ma il difetto del sangue aviene; o perché lo stomaco non fa chilo, o, questo fatto, non arriva al fegato, che lo converta in sangue, e vedere perché il chilo non trappassi al fegato, è ufficio di medico. Ma la cagione, per la quale lo stomaco non lo genera, è doppia, o perché non gli viene porto cibo, o perché egli è distemperato tanto, che non lo può trasmutare. Ma la cura di questo membro si raccomandi al medico; perciocché io toglio nella mia città i corpi sani, e naturalmente ben disposti, a' quali può accadere, che non piglino nudrimento, o per non averne, o per esser loro vietati, ed acciocché questo vietamento si vieti, si potrà per legge provedere. Al non averne poi, l'unico rimedio è l'averne (4). Abbia dunque da mangiare e da bere la città se desidera vivere ed esser beata. E con ciò sia cosa, che l'uomo comunemente o di pane o di legumi o di frutte o di carne usa di cibarsi, e bere o vino o acqua, o bevande composte dall'arte, acciocché egli viva, e viva senza impedimento, gli si ricercano tutte queste sette cose, e nascendo le cinque dalla terra, e dell'altre due pascendosi l'una dalla terra, e l'altra dalle cose dalla terra nate facendosi, necessariamente ci vuole di territorio di terra tanto, quanto sia bastante a produrre, ed a mantenere queste cose, in sí grande abondanza, che possa senza impedimento alcuno nutrire tutta la città. E perché il terreno, per lo piú senza l'aiuto dell'arte, diviene sterile, e lungo tempo non può produrre, s'appresenta quivi la necessità dei contadini, e de' pastori, dell'agricoltura, e dell'armentaria. E perché cotale esercizio è faticoso molto, e di grandissimo affanno, vi si richieggono uomini, che sieno robusti, e possenti a sopportarlo, e acciocché per la fatica non possano ricusarlo, e perché i cittadini possano piú liberamente loro comandare, è bisogno che sieno servi. Ed acciocché, comandando loro i signori, non ardiscano di opporsi ai comandamenti loro, sieno timidi, e di vile animo; e, come si dice, servi per propria natura. Ed acciocché quello che non può far uno, non faccia la moltitudine, e pigli impresa di ribellarsi ai padroni, non abbiano parentela insieme, perciocché molto piú facilmente si accordano ad un fatto, per la conformità del sangue, i parenti, che altre genti, che sieno di lontano lignaggio. E perché il contrasto che essi soli non potesseno fare, non facessero con l'aiuto de' finitimi popoli, debbono anche questi essere a' nostri contadini simiglianti nella viltà dell'animo, e nella differenzia del sangue. Or questa è una sorte d'uomini che ci va avanti spianando la strada, per la quale piú agevolmente possiamo pervenire al detto rivo. E con ciò sia cosa che l'uomo non soglia prender cibo di grano, o di legumi in quello stato, che la terra gli porta, né di carne che viva, o cruda sia, però ci si fa innanzi una turba di molinai, di frangiceci, di pistori (5), di fornai, di macellai, di cuochi, i quali ci apprestino, cosí queste cose, che sieno acconcie al mangiare. E perché questi artefici, in apparecchiarle hanno bisogno di molti e vari istrumenti, gli viene dietro un'altra moltitudine di artefici, di picchiapietre (6), di muratori, di legnaiuoli, e di fabbri, i quali le cose a quei primi necessarie vadano fabricando. Tutte queste cose, o di lontano o di vicino, concorrono alla creatione degli spiriti, per rimedio della vita; contro a quel primo difetto, quando essi non si generano. Ora vengo al secondo, quando, doppo che sono generati, si disperdono (7); e ciò in due modi suol accadere, o usando tutti puri e naturali fuor del corpo, o dentro al corpo guastandosi. Si guastano dentro al corpo, o per troppa condensazione o per troppo rarefacimento, o per velenosa qualità, contraria alla sostanza loro; o per altro accidente si corrompono. La troppa densità suole cagionarsi dal freddo, cosí interno come esterno. La rarità dal caldo parimente intrinseco o estrinseco proviene. E la velenosa qualità è medesimamente, o interiore o esteriore. Ma con ciò sia cosa che in un corpo sano e di naturale e buona temperatura non posa cadere veruna delle predette qualità se di fuori non ha principio, resistendo a queste qualità di fuori, resisteremo similmente, che quelle di dentro non si facciano. Ci faremo, adunque, incontro in universale, tra 'l freddo e il caldo, se fonderemo la nostra città in luogo, dove niuna di queste due qualità sia prepotente ed eccessiva, ma tenghi tra ambedue mezano temperamento, quale è quello di tutto il quarto clima con le parti congiunte del terzo, e del quinto. E per questo le città d'Etiopia, e quelle che sono troppo sotto l'Orse, non possono a pieno cavarsi la sete nell'acque del nostro felice gorgo, facendo impedimento a quelle il troppo ardente caldo, ed a queste il troppo intenso freddo. Schiferemo poi il particolare freddo e caldo delle stagioni, verno ed estate, con rimedi piú particolari. Al freddo ci opporremo, se noi fuggiremo per quanto si può l'acre sereno e quieto della vernata, il ventoso, le pioggie, le nevi, i ghiacci, dalle quali cose tutte ci riparano le mura, e i tetti delle case, e le coperte delle vesti, e da questo luogo ci nasce il bisogno di piú sorte d'artefici a fare le case, gli architetti, i muratori, i manuali, i legnaiuoli, i fabbri, i fornacciai, i picchiapietre; a fare le vesti, poi, i sarti, i tessitori, i lanaiuoli, i pellicciai, i calzolai, e molti altri di questa sorte. Il caldo noioso della state si fugge, seguendo l'ombre, i freschi, e l'aure, con poco carico di vestimenti. L'ombre e 'l fresco si hanno nelle loggie, e nelle camere terrene, e l'aure in que' luoghi, dove ci può tirare il vento; e tali sono i luoghi rilevati, ed aperti, ed a questo fine, sono comode le loggie alte, alle quali cose fare ci si adopra l'architettura, con le sue ministre. Ed acciocché tutta la città possa avere questa commodità, sia in parte edificata sopra colle rilevato, perché sia piú esposto all'aure, e, per non aspettare nel medesimo luogo il freddo della vernata che in tai luoghi suole essere piú fiero, sia ancora in parte posta nel piano, dove la freddura non può avere cosí gran forza; ed uno cotal sito non solamente serve alla detta commodità, ma e alla vaghezza della veduta, e alla fortezza ancora della città; e per questo si loda a' tempi nostri Verona ed a' passati Atene. La leggierezza dei panni non aggravando tanto, ripara molto alla noia del caldo. E nessuno è che non sappia, che la seta è meno grave e della lana e del lino. Per questa commodità, adunque, ci giunge un'altra mano di artegiani, che hanno l'impresa di acconciare la seta all'uso de' cittadini, i quali, quantunque andando ignudi piú sgravati sarebbono, nondimeno, sí come la necessità del freddo gli manda vestiti il verno, cosí la necessità della modestia, che è tra le virtú morali registrata, gli vuol vedere anco la state addobbati di panni. La velenosità esteriore, sí come il freddo e il caldo, piú che altrove, nell'aere si genera. La quale non è altro che un temperamento dell'aria, guasto e corrotto, e fuori della sua natura uscito; e questo è un caldo e umido, putrido e pestilenziale. Fuggendo adunque noi questo aere distemperato, e le cose che tale il possono rendere, non potrà causare nocimento alcuno alla nostra vita. Possono corrompere l'aere le paludi o le selve di quegli alberi che mantengono la foglia, come sono bossi, lauri, edere, cipressi, abieti e simili. I luoghi chiusi, parimente, dove l'aria stia quieta, ed i venti non la possano purgare, possono farla divenire maligna. L'ostro, che è caldo ed umido, può ancora danneggiarla non poco; ed alquanto il vento di ponente, essendo egli nel secondo luogo della stessa temperatura con l'ostro. Se noi, adunque, vogliamo avere l'aria sana ed incorrotta, e che ci mantenga la vita nello stato naturale, noi abbandoneremo i luoghi dove alcuno o piú di questi difetti si veggano. E troveremo per edificazione della nostra città siti a i predetti del tutto contrari. Perciocché il contrario è ottimo ed unico rimedio al suo contrario. Però eleggeremo luoghi, dove non ci siano palludi né altre acque stagnanti e fangose, e luoghi privi delle dette selve, e luoghi alti ed aperti, ed esposti ai fiati d'Oriente e di Settentrione. Ma con ciò sia cosa che la sanità non solo per le sopradette cagioni si corrompe, ma dal modo del nostro vivere ancora e da i disordini che tutto dí si fanno e da altri innumerabili accidenti che ci avengono, che né da freddo né da caldo né da corrotto aere nascono, ci occorre un'altra sorte di artefici, che a questi mali si oppongano, con l'aiuto de' quali, dalla violenza loro ci liberiamo. Tali sono i medici fisici, i cirugici ed i loro ministri barbieri, gli stuffaiuoli e gli speciali. Questi raccontati modi sono quelli co' quali possiamo rimediare alla consumazione che si fa a poco a poco de gli spiriti nostri vitali (8). Il subito loro svanimento, ch'era il secondo modo della lor separatione dal corpo, aviene quando l'uomo è per alcun caso ucciso. E ciò suol avenire o da inimico cittadino, o publico, o privato, o da nemico esterno o comune di tutta la città o particolare di alcuno; ovvero viene morto dal caso, del quale, per esser egli sopra la nostra potestà, non si può terminatamente ragionare. Ma del nemico domestico e cittadino parlando, io dico, che dall'essecuzione del già suo malo animo lo ritrae il timore della pena; e dal cattivo animo lo rimove lo amore che l'uno all'altro i cittadini si portano. Non ci saranno adunque nella città nostra private nemicizie se tra' cittadini ci regnerà amore; e l'amore non si genera se non verso la cosa conosciuta. E perciò necessaria cosa è, che i cittadini tra loro l'un dell'altro abbiano notizia. La qual cosa piutosto in una mediocre e convenevol moltitudine che in una innumerabile si fa; ed in questa piú facilmente ancora, se non è confusa, ma è per casate distinta. La qual distinzione, nell'Egitto, a' tempi di Sesostre (9), primieramente ebbe origine. Doverà, adunque, la nostra città, non d'infinita moltitudine di genti esser ripiena, ma di tanta, in somma, che tra loro possano tutti facilmente conoscersi; ed a ciò meglio fare, saranno per diversi sangui e casate distinti. Ed acciocché questa radice del reciproco amore cresca e venga a perfezion tale, che faccia frutto perfetto, voglio che ne i conviti publichi si nutrisca; i quali del publico, e nel publico, si celebrino ogni mese almeno una fiata, secondo l'antico costume di Italo Re d'Italia (10), che primo di tutti mise in piedi questa usanza. Nel publico, adunque, sieno statuite publiche stanze, dove questi conviti si abbiano a celebrare, e del publico sia una parte del territorio della città, i cui frutti sieno solamente a questo fine destinati. E perché tarlo d'invidia non roda questa già nata e cresciuta pianta, si adacqui il terreno d'intorno con acqua temperata d'egualità, e nelle possessioni private, e nelle degnità; la quale, io credo che vietarà, che non ci nascano questi maledetti tarli, che dividono col morso loro da se stessa l'unita pianta, ed infino alle radici la consumano, onde poi necessariamente segue la totale ruina sua. Ma se ci fusse ramo alcuno, che non del commune già detto nutrimento di tutto l'albero, ma del suo proprio maligno umore si nutrisse, e con quello a vicini volesse nocere, col ferro bisogna troncarlo, e dalla compagnia de gli altri totalmente levarnelo. E questo è il timore delle leggi sacrosante, che noi dicevamo proibire l'essecuzione della malignità ed amarezza dell'animo di alcuno, di danneggiar altrui. Dell'essecuzione veramente delle leggi sono amministratori i magistrati ed i giudici, da' quali poi deriva una lunga schiera di accusatori, di avocati, di procuratori, di notai, di cursori, di bargelli, di sbirri, e d'altre simil genti. E tali sono i rimedi contra le inimicizie domestiche private. Ma quelli che si prendono gli odi et le nemicizie col commune e con la pace universale di tutta la città, onde ne vengono le risse, le sedizioni, e le guerre civili, non per altra cagione il fanno, che mossi e spinti dalla cupidità di regnare. Per non avere, adunque, da temere de i romori e de' sollevamenti popolari, sia in potere di ogni cittadino il regnare, over governare la città; che quello è veramente il vero cittadino, il quale partecipa de gli onori, e dell'amministrazioni publiche. Ma perché tutti i cittadini ad un tempo medesimo in degnità non possono esser collocati, è conveniente che ciò facciano a vicenda, e l'un dopo l'altro sagliano al magistrato. E perché la salute della republica tutta da i governatori depende, e con la prudenza loro si salva, però bisogna che coloro, che hanno ad avere il governo della città, sieno de' piú prudenti e de' piú savi (11). del governo della città E la prudenza parte è da natura, e parte dall'esperienza. Quella che è da natura, cosí ne' giovani come ne' vecchi si ritrova; ma quella che per esperienza s'acquista, ne' vecchi solamente, e di età provetta, si vede; avendo a loro la lunga età insegnato il maneggio delle cose del mondo. Deono, adunque, esser eletti al governo della città i piú vecchi, ed i giovani hanno ad esser governati, acciocché prima imparino ad essere retti essi che abbiano a reggere altrui; essendo sopra tutte felice quella Republica, i cui rettori, avanti che amministrare, hanno bene apparato ad esser amministrati. Cessaranno, adunque, tutte le discordie e dissenzioni civili, se 'l fuoco dell'ambizion giovenile sarà dall'acqua della certa speranza di dominare ammorzato. E queste sono le medicine che purgheranno il corpo della città nostra di tutti i cattivi umori, che potessero o ad alcun membro particolare, o al tutto, apportare doglia e passione. Ma come si potrà un nostro cittadino da un nemico forestiere, nella propria città, diffendere? Certo con ispaventare colui con la rigorosità delle leggi, contra di coloro, ch'essendo forestieri, fossero della nostra città arditi di fare un cosí fatto insulto. Ma la città come potrà da un nemico esercito guardarsi? Senza dubbio con l'armi; le quali, però, non combattendo da sé sole, hanno bisogno d'uomini che le maneggino, ne' quali parimente si ricerca volontà, cuore, e forza di resistere a' nemici. Il cuore e la forza dalle prime fascie si portano, quantunque alcuna volta per uso e essercitazione s'accrescano; e ne' giovani, per la virtú del caldo loro potente, piú gagliardi si veggono. Ma volontà averanno per l'amore del proprio bene, e del comune della patria; l'amore del proprio bene istigarà i cittadini a volersi diffendere, se ciascuno delle possessioni private averà la metà ne i confini del territorio, e l'altra metà piú vicino alla città; per ciò che molte volte, colui, che non avesse parte del suo avere a' confini, non si curerebbe di prestar aiuto a coloro che le avessero; e quelli poi che l'avessero, spesso spesso, acciocché loro non fossero guaste, s'accorderebbono coi nemici, dalla quale division de' voleri necessariamente ci seguirebbe la distruzione universale di tutti. Laddove, se ciascuno avesse ne' confini a fare, con animo e forze unite al nemico resisterebbe. La quale unione, perché si faccia e si salvi il tutto, partisca il legislatore i beni nella predetta guisa. L'amore del commun bene troverà gli animi disposti all'opporsi alla furia de' nemici, se tutti i difensori saranno nella medesima patria nati. Per il che la nostra città non condurrà in sua difensione soldati mercenarii, ma userà de' suoi propri figliuoli, i quali con piú tenero amore e con piú accesa voglia, come madre, da ogni offesa esteriore, la guarderanno; e piú volentieri la vita loro alla morte per sua difesa esporranno. E da questa necessità nasce l'armato stuolo de' guerrieri, i quali il terreno d'onde uscirono fino alla morte difiendano, e non come quelli di Cadmo (12) e di Giasone (13) fra se stessi s'uccidano. E perché talora questi generosi figli non potessero nel grembo della casa madre da troppo superiore moltitudine de' nemici esser oppressi, la quale o da mare o da terra venisse ad assalirli, di mestieri sarebbe che istromenti avessero da potersi riparare. E però, se da terra l'esercito inimico venisse, di tre cose bisognerebbe che essi avessero riparo. E prima, per non lasciarlo alla città appressare, servirà il sito del paese, o almeno del confine del territorio, montuoso, sassoso, ed aspro e privo di molta copia di acque, ma di tante solo abbondante che a' bestiami del luogo fussero assai ed al nemico non bastanti; acciocché difficile fosse ad un grosso esercito l'entrarvi, e, se entrato vi fosse, che spinto dalla sete, fosse sforzato a ritornarsi. E se queste cose a scacciarlo non bastassero, e che ci rimanesse, e s'appressasse alla città, acciocché non potesse ad un tratto farsene signore bisognerebbe porci l'ostacolo de' muri, che la furia del nemico ritardasse e ritenesse. E perché non gli scalasse di leggieri, o in altro modo li superasse, vi si richiederebbe il cingerli con la fossa. Ma acciocché non fosse in tutto possibile il batterli, sarebbe ottima cosa edificare la città in sito tale, che dalla parte della terra avesse un alto precipizio. E se pure il nemico s'avvicinasse, e tentasse di superare tutte le dificultà, mestiere sarebbe che i guerrieri di dentro il rigittassero. E ciò in due modi si può fare: o stando alle mura o uscendo fuora; se stando alle mura, o lontano, o presso. Di lontano, sarebbero necessarie l'artiglierie, gli archibusi, le balestre, e gli archi. Al da presso, verrebbono a proposito l'arme inastate di varia sorte, le spade ed i pugnali. E perché piú lungamente potessero il nemico offendere, bisognarebbe che se stessi ancora dalle ferite difendessero. Questo possono fare con l'arme di dosso, quali sono i corsaletti, l'anime, le corracine, i giacchi (14), e simili. E queste necessità chiamano nella città una moltitudine di artigiani, di bombardieri, di balestrieri, di arcieri, di armaiuoli, e di spadai. Uscendo alla campagna, o escono a piedi, o a cavallo, e, o dalla lunga gli contrastano, overo di vicino attaccano la zuffa. Nell'uno e nell'altro modo, si usano le medesime arme da pedoni, le quali ancora s'usano difendendo le mura. Da' cavallieri ancora, per la maggior parte, vengono medesimamente adoperate quelle arme, che da vicino al taglio sono buone. Ed hanno i cavallieri di piú il cavallo; la cura del quale tira dietro a sé diverse sorti di artefici, di mariscalchi, di armaiuoli, di sellai, di cozzoni, e di altri. E questi sono gli uomini e gli istrumenti, che la difesa fanno contra i nemici di terra. Per mare veramente (perciocché siamo sforzati, come si vedrà, a fare la nostra città marittima) parte il sito, e parte gli uomini guarderanno la città; la quale, di sito voglio che sia alquanto ingolfata, e la bocca del golfo sia ristretta, e d'ambedue i canti sia edificato un castello, che possa proibire l'entrata all'armata nemica. La difesa de gli uomini poi sarà, o rimanendo essi ne' castelli e nella città o difendendo le mura, o uscendo contra i nemici. E questo nel mare non si può fare con altro che con le navi e con le galee; al remo delle quali saranno buoni i contadini a ciò destinati. Per la fabrica delle navi e delle galee la città sarà fornita di navaiuoli, di remai, di cordaiuoli, di telaiuoli, e d'altri simili artigiani, da' quali l'armata all'ordine si possa mettere. E 'l territorio sarà abbondante di legnami, atti a fare i fusti di tale armata. E perché nelle guerre (e massimamente quando a lungo durano) e in altre opere ed edificii publichi si fanno delle spese e ci vanno de' dinari assai, i quali dal territorio solo e dal poderi no nsi possono cavare a sofficienza, è bene che nella città ci sieno delle persone, che si diano all'esercizio del traficare e del mercatantare per il privato, e che da questo il publico, con le gabelle e con le giuste esazioni, si accresca in dinari, per potersi poi a bisogni mantenere nelle spese. Ed a nessuno è nascosto, che la mercatanzia piú vale per mare e piú facilmente si essercita, che per terra non si fa. Laonde, a maggior commodità de' nostri mercatanti, porremo la nostra città sulla marina; dentro la quale saranno disposti, in parte opportuna, i luoghi de' mercatanti, come sono piazze, mercati, banchi, fondachi e botteghe. Le quali cose non solamente sono necessarie, ma porgono ancora molto d'ornamento alla città. E con ciò sia cosa che si fissa naturalmente ne gli animi nostri la religione, che non si trovò mai uomo alcuno, che non si avesse alcuna cosa, o per legge o per elezione propria, fatto Dio, e quella non venerasse; a tale che si può con verità dire che non meno è propria all'uomo la religione, che si sia l'inclinazione e l'amor naturale del vivere in compagnia; però bisogna che a satisfazione de tutti gli animi de' cittadini ci sieno nella città persone che insegnino le leggi divine, trattino i misteri e con i sacrifici ne facciano benigni e placabili i Dei. E perciò sieno dal publico edificati tempii e chiese, dove il culto a Dio si possa rendere. Ora da tutto 'l precedente discorso facilmente si può sottrarre, che alla costituzione di una città beata, sei maniere d'uomini si ricerchino. E prima i contadini, i quali ci vadino inanzi spianando ed acconciando la via, che ci meni all'acque del sopradetto felice gorgo. I secondo sono gli artefici, che ci fabricano e cocchi e carette; che ci governano cavalli e mule, sopra a' quali, con molto meno fatica nostra, ci conduciamo al rivo. I terzi sono i mercatanti, che con l'industria loro ci alleviano il camino, e con l'opre loro spesso ne' bisogni ci aiutano. Appresso a questi sono i guerrieri, che nei pericoli, con la vita propria, guardano la vita di tutti gli altri. E doppo loro sono i magistrati ed i guidatori di cosí numerosa moltitudine caminante verso le felici acque del celeste gorgo. Nel sesto luogo sono i sacerdoti, i quali con le loro orazioni adoperano, che col favore e con la grazia divina esca questo popolo della solitudine e del deserto, e pervenga alla terra, piena di quell'acque, che sono, piú assai che 'l latte e che 'l melle, saporite e soavi. Queste sei predette maniere d'uomini, che di compagnia si misero a sí faticoso camino, beerannoo elleno tutte dell'acque sopracelesti? Certo tutte quelle saranno dell'acque saziate e felici, a cui converrà la diffinizione della felicità; alla quale, per prima, non aggiunge la turba de' contadini, i quali tutto che possano infino alla vecchiaia vivere, non sono però privi di molti impedimenti; anzi tutta la vita loro spendono in affaticarsi, per far vivere e sé e gli altri; per i quali impedimenti non possono acquistarsi l'operazione e gli abiti delle virtú, le quali sono quell'ultimo passo, che ci fanno alla beatitudine arrivare. Per la ragione medesima, neanco gli artefici saranno del numero de' beati, stando essi tutta la vita loro discomodi ed occupati, per accomodare e disoccupar altrui; il che loro cosí stanca e rende fiacchi, che non hanno poi forze di salire l'erto e faticoso monte della virtú. La schiera de' mercatanti parimente, menando tutta la vita loro per i perigliosi travagli dell'instabil mare, lasciano di ascendere il sicuro ed immobil monte, nella cui cima ha il suo paradiso e le sue delizie la felicità; delle quali, queste tre ragioni d'uomini sono digiuni ed isbanditi. Gli altri tre ordini, cioè i guerrieri, i governatori, ed i sacerdoti, possono lungamente vivere, essendo loro amministrate le cose necessarie dalli tre ordini antedetti, sí, che con la mente quieta e senza ansietà di procacciarsi il vitto, possono donare tutto l'animo alle virtú e civili e contemplaive. Laonde, volendo noi instituire una città beata, i tre primi faticosi ordini non possendo vestirsi la veste nuziale e sedere insieme a mensa con i vestiti, non saranno da annoverare tra i convitati. Ma serviranno a questo convito gli uni come cuochi, gli altri come apportatori di vivande, e i terzi come servitori di coltello e di coppa. Le mie parole suonano, che l'ordine de' contadini, degli artigiani e de' mercatanti non possendo per le predette ragioni esser beati, non intreranno in parte della città beata; e per conseguente non goderanno di tutti i privilegi di lei, e per ciò non saranno da chiamar cittadini; perocché, soli cittadini si deono intendere veramente esser coloro, che sederanno alle predette nozze. E perciò le preminenze, gli agi, le comodità, saranno tutte loro, ed il servizio, gli stenti, e le fatiche saranno tutte di quegli altri. E se pure volessero alcuni, non possendo la città stare senza costoro, chiamarli parti di lei, io loro concederò volentieri questo nome, intendendo, però, che tale abbiano parte, in quella, quale in una casa privata ha il lavoratore de' terreni, il servitore, ed il maestro di casa, lasciando il luogo del padre di famiglia, della madre, e de' figliuoli, a' sacerdoti, a' magistrati, e a' guerrieri. Ed in somma dirò la nostra città avere due parti, l'una servile e misera, l'altra signora e beata; e questa propriamente chiamarsi cittadina, come quella che negli onori e nelle preminenze della republica ha mano e ne è padrona. Ora delle tre parti, che noi vedemmo avere la diffinizione della felicità, dell'ultime due solamente sino a qui si è ragionato, cioè delle cose, con le quali la vita nostra lungamente si mantiene; e di quelle che in agio, e senza impedimento veruno, la ci fanno menare. Ora alla terza veniamo, e veggiamo come il cittadino possa farsi, nelle virtú morali ed intellettuali, eccellente tanto, che possa per aiuto di quelle esser felice, e bere dell'acque del celeste gorgo. Consistendo, adunque, la felicità, per la miglior parte e compimento suo, nell'operazioni della virtú, bisogna, se i nostri cittadini vogliono esser beati, che sieno in prima virtuosi. E all'acquisto della virtú si richieggono necessariamente tre mezzi; quello della natura, perciò che è di mestieri che la natura uomo primieramente mi faccia capace della virtú. Il secondo è quello della consuetudine, la quale indirizzata dalla ragione, mi lavi gli affetti dell'animo, delle immondizie, degli appetiti vili e disonesti. Il terzo mezzo è quello della ragione, perciocché oltre la usanza, spesse volte la ragione persuade alcune cose, che sono migliori di quelle, che si fanno per lungo, ed osservato costume. Il primo è tutto della natura, il secondo poi è tutto del latore delle leggi. E nel terzo hanno mano ambedue. Perciocché la bontà della ragione parte è dono di natura e parte viene dall'abito acquistato dalle scienze ordinate dal legislatore; il quale, se brama il suo popolo a felicità condurre, è necessario, che egli risguardi all'anima umana e conosca che ella ha una parte, che è da se stessa ragionevole; e sappia di questa stessa una parte esser pratica e l'altra specolativa; e di quella, che è di sua natura priva di ragione, esserci una particella atta ad obbedire a lei, nella quale stanno tutti gli affetti umani. Ed oltre a ciò, ponga mente alla qualità delle cose mondane e vegga che altre sono necessarie, altre utili, ed altre oneste; ed abbia riguardo a gli stati, ne' quali continuamente si rivolge la vita nostra e quegli essere o ozio o negozio o pace o guerra. E dovendo egli, secondo il presupposto, porre i suoi cittadini in felicità, la quale è sommo nostro bene, è convenevol cosa che egli di tutte le dette cose elegga le migliori, ed in quelle ponga il suo fine e il suo riposo. Non lasciando però l'altre, ma per quelle passando di grado in grado all'ottime e perfettissime saglia. Delle potenze dell'anima, adunque, la piú prestante e sublime è la specolativa; però bisogna ch'egli si fermi in questa; avendo prima i suoi cittadini essercitato, e nell'attive, ed in quella dove hanno letto tutti gli affetti dell'animo nostro. Nella qualità delle cose ancora abbia riguardo di indirizzare per leggi e per consuetudine il suo popolo, validando per le necessarie e utili all'oneste, le quali sono nel piú alto e rilevato luogo poste. Negli stati della vita, similmente, gli instruisca principalmente all'ozio ed alla pace, come a stati migliori; non lasciando, però, di usarli alle faccende ed alla guerra; acciocché, secondo i bisogni, possano pigliar guerra ed occupazioni, per guadagnare, finalmente, la pace ed il riposo. Per la qual cosa gli assuefarà, piuttosto nelle cose oneste, che nell'utili; e piú nelle virtú, che sono proprie della pace, che in quelle della guerra; e piú tosto in quelle che vagliono in ambedue gli stati, come è la prudenza, la giustizia, e la temperanza e simili, che in quelle di un solo, ed ami piú di fargli specolativi che prattici. E secondo che l'uomo è due, corpo ed anima, cosí è l'anima ancora due, razionale e irrazionale; e come il corpo è fatto per l'anima ed è di tempo primiero di lei, cosí la irrazionale, che è col corpo mista, serve alla ragionevole, e prima si mette in opra, che non fa la ragionevole, la quale è l'ultima perfezione dell'uomo. Però consentanea cosa è che 'l latore delle leggi, in quanto può, abbia, in prima, cura del corpo de' suoi cittadini, e poi dell'anima (15). Il corpo ha principio dalla generazione. E da questa cominciarà egli ad averne cura. E con ciò sia cosa, che i figliuoli, che alla luce vengono, di padre e di madre escono, dovere è che il legislatore di questi primieramente si pigli pensiero, perciò che, concorrendo al generamento del figliuolo, dal padre il seme e dalla madre, secondo i medici, il seme ed il sangue, per la sanità e robustezza dei generati, bisogna che sano e caldo in eccesso, anziché no, sia il seme di ambedue ed il sangue della donna. Essendo che quale è la cagione, tale è parimente l'effetto che da quella ne viene. Sano sarà il seme, se da corpo sano verrà; robusto simigliantemente, se da robusto; e robusto è allora, che è nello stato suo naturale, piú caldo che egli possa essere, e questo è quando l'uomo si trova nello stato e nel fiore della sua età, che è nel maschio da trentacinque anni infino a quarantanove, e nella femina dagli diciotto fino a quaranta. E quantunque le donne sieno possenti alla generazione da quattordici infino a cinquanta, nondimeno il seme ed il sangue inanzi a diciotto, per la tenerezza dell'età, è molto debile ed umido; e doppo i quaranta assai si raffredda. E cosí nell'uomo al detto tempo migliore è il seme, che nell'età che precede o che segue. Quantunque anch'egli, da quattordici per infino a settanta, sia atto al generare (16). Però di tanta età, fra loro si maritino gli uomini e le donne della nostra republica; e si congiungano insieme all'atto generativo, per la medesima cagione, in quel tempo particolare, che il calor naturale non sia debilitato, come è la state; ma forte ristretto, come il verno; e quando egli non è occupato in altre operazioni, come è quando ha fornita la prima digestione; perciocché operando in quella, può meno ad altro attendere, sí come poi che le ha finite tutte e tre è troppo fiacco, per essere già il corpo famelico e voto l'umido dei vasi, nel quale il calore, come in proprio letto, si riposa e conserva. Ed essendo il nutrimento una restaurazione della sostanza nostra, che dal caldo è consumata, e nutrendosi doppo il concetto l'embrione del medesimo nutrimento che la madre, ella per legge stia molto regolata di bocca, e mangi cose che non nuocere, ma giovare ed alla sanità ed alla fortezza de' membri del figliuolino possano. Tali sono per lo piú l'umide e calde e di leggier concozione (17) e di molto nutrimento. E dovendo, come dicemmo, il figliuolo, e per propria felicità e per i servigi della republica, nascere sano e robusto, ed ambedue questi effetti dal naturale e forte caldo procedendo, non dee la madre, di lei nutrendosi il figliuolo, diminuire il proprio suo valore, né accrescerlo ad eccesso, e però non deve debilitarlo con lo stare melanconica ed oziosa, né rinforzarlo troppo col fare troppa fatica; ma comandi per legge il legislatore alle gravide, che spesso spesso visitino le chiese; che è un esercizio, in cui non cadono troppi piegamenti di corpo, che nocere possano al concetto fanciullo; ed il quale fa accrescere la religione e la divozione verso Dio; senza la cui grazia niuna cosa è buona; ed oltre dà occasione, questo esercizio, alle donne, veggendo questa cosa e quella della città, di discacciare i noiosi pensieri e di stare allegre. Dopo il parto, delle cose necessarie si dia nutrimento al fanciullo, in modo che il tenero suo corpicello non sia offeso; e questo avverrà, se il cibo gli si darà molle, e tale, che sia di facile digestione; e a ciò meglio non si può trovare, che il latte. Tra le utili cose alla vita, alla sanità ed alla fortezza sono quelle, che conservano e vivace mantengono il calore; tali sono il far partire mediocre freddo al fanciullo, perciocché il caldo, dal suo contrario combattuto, mette in opra con maggior forza la virtú sua, e non si lascia dall'ozio illanguidire; il pianto ancora lo essercita molto. E questi predetti modi si tenghino in governarlo in fino al tempo di cinque anni, e di qui, insino a sette, per legge, si assuefacci il fanciullo di odire e vedere quelle cose, che alla perfezione del corpo e dell'animo si richieggono. Al corpo si richieggono gli essercizi, a fine di che sieno giuochi nella città ordinati, dove i cittadini, secondo gli ordini dell'età., si essercitino; e sieno giuochi tutti da uomo libero e, come diciamo oggidí, da gentiluomo. E tali seranno tutti quelli che non renderanno il corpo disadatto all'operazione della virtú. Questo è quanto il legislatore, con ordinare le consuetudini, può al corpo giovare. All'anima parimente può giovare e menarla a compimento, o serrandole il camino, che al vizio la trabocca, o spronandola ad intrare l'erta dell'aspro monte, nella cui cima la virtú tiene il paradiso delle sue delizie. Le chiude le vie del vizio ogni volta che con timore di gran pena sbandisce a' fanciulli il vedere e l'odire le cose viziose e disoneste. E perciò dal vedere le pitture lascive e dall'odire le comedie ed altri simili poemi, e molto piú dal recitarli, gli ritragga; acciocché il semplice e puro animo loro non rimanga impresso di cosí brutta e dannevole stampa; la quale, per essere stata la prima, non si possa giamai d'indi levare; punendo publicamente o ne' conviti, o nelle piazze, o con ingiuriose parole, o con bachettate coloro, che essendo d'età virile, avessero in presenza de' fanciulli o detto o fatto qualche disonestà, od altra cosa meno che lodevole, e che potesse l'animo loro contaminare. Gli spronarà poi all'entrare nella strada della virtú, col timore della pena del vizio, e con la speranza di quel glorioso premio, che la virtú suol dare a quelli che al suo paradiso son pervenuti; e questo è quel sommo piacere e quel sommo contento che in questa vita si puot'avere. E perché i fanciulli, per la debolezza dell'ingegno, non possono, né la pena, né 'l premio, perfettamente intendere, statuisca il legislatore luoghi publichi, dove essi sieno ammaestrati ed istruiti nelle virtú morali, con i precetti e con gli esempi, i quali facendo impressione in quel tenero animo, tutto lo formino, e della lor imagine lo stampino di maniera che difficilmente ella si possa piú quindi scancellare. E questo è quanto appartiene alle virtú morali. Per le intellettuali ancora è da sapere, che cominciando ogni nostra cognizione dal senso, o da gli assiomi insieme con l'anima nostra nati, si apre la via alla specolazione, o col odire o col vedere (sensi di tutti gli altri nobilissimi, perciocché gli altri, piú al corpo, che all'anima sono obbligati) o col intendere; col odire, sentendo musica, dalla cui soavità tirata l'anima, si leva in desiderio di conoscere le cagioni, e vicine e lontane, di tanta melodia; dal vedere, parimente, le belle creature, le nasce un desiderio di sapere come sieno poste insieme le parti, d'onde sorga tanta bellezza, e chi ne sia il fabricatore. E perciò ponga legge il legislatore, per infondere cotal desiderio nei petti dei fanciulli che publicamente sia loro insegnata la musica e la pittura. E cosí come questi due sensi rappresentano le imagini loro all'intelletto, da cui a compimento poi si riducono, cosí la filosofia, in cui l'intelletto spiega l'ali delle sue forze, mena a perfezione il desiderio, che dalla musica e dal bello era nell'animo dell'uomo nato. La quale, essendo oggidí ne' libri riposta, di quivi meglio, che d'altronde, potranno i nostri fanciulli imparare. Il che dovendo fare è necessario che essi sappino di grammatica. La quale, alle predette due, si aggiunga da esser apparate dai fanciulli. Oltre la necessità, dico, che ha l'anima di queste tre cose ridursi a perfezione, elle sono in molte cose, e publiche e private, molto utili ancora, perciocché la pittura può servire a molti disegni alla città ed a ciascun privato importanti. Della grammatica in molte occorrenze, e particolari e communi, fa bisogno; come nelle trattazioni delle leggi, degli avisi per lettere ed altre. La musica parimente giova molto, ad incitare, ad acquetare, e ad assettare l'animo nostro. Perciocché la musica Frigia ci riscalda l'animo e ci empie di furore; la Lidia ce lo fa tranquillo e rimesso; la Doria che lo acconcia in un mezzano stato; la Hipolidia (18), poi, ce lo fa mesto e lamentevole. E, se bene queste musiche oggidí non sono da noi conosciute, nondimeno le nostre possono anch'elle molto (come tutto dí si prova) movere l'animo nostro. E sono alcune, che con gli effetti all'antiche alquanto s'assimigliano: le Francesi alla Frigia, le Napoletane alla Lidia, le Lombarde alla Doria. Ma essendo sempre il mezzo da preporre alli suoi estremi, per esser in quello collocata la virtú, meglio sarebbe che i fanciulli nella Doria, o in sua vece nella Lombarda, che sta di tutte nel mezzo, primieramente l'abito facessero, per fermare l'animo in quel mezzano stato. Oltre a ciò, essendo la felicità sommo nostro bene ed ogni bene cagionando in noi letizia e gioia, la felicità parimente non in doglia e tristezza ci terrà, ma allegri e gioiosi. Alla quale cosa ottimo istrumento sarà la musica; e però tra i già beati, che non sono i fanciulli, buono sarà, se tutte le sorti di musica si adopereranno: e ne' conviti e feste publiche e nelle camere private. Se tale sarà la nostra città, quale descritta l'abbiamo, abbondantissimamente si potrà trar la sete e saziarsi dell'acque che dal beato gorgo sopra lei caderanno. La quale in grandissima altezza, fra tutte l'altre città del mondo levata, ed in cospetto di tutte posta, sarà da loro venerata ed adorata e pregata, a degnarsi d'intingere il dito suo nell'acque salutifere del suo felice rivo e di bagnare, in refrigerio delle miserie loro, con una stilla la bocca loro, arsa ed assetata.

 

(Francesco Patrizi, La città felice )

 

 

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FRANCESCO PATRIZI


 

Francesco Patrizi o de Pretis, nacque a Cherso nel 1529. Dopo aver studiato nella sua città natale con Petruccio da Bologna, percorse gli studi universitari a Padova, e fra gli studenti fu presidente della Congrega dei Dalmati. Non tardò a farsi notare e a Padova ed a Venezia dove nel 1553 pubblicò una raccolta di studi: Città felice; Dialogo dell'Honore; Il Bargnani; Discorso sulla diversità dei furori poetici; Lettere sopra un sonetto di Petrarca. Tornò a Cherso e, dopo poco, ripartì per Venezia e Ferrara. Divenne amico di Alfonso d'Este, di Scipione Gonzaga, di Agostino Valerio, di Girolamo della Rovere, del cardinale Ippolito Aldobrandini, e di altre eminenti personalità. Viaggiò molto. Percorse l'Italia e la Spagna. Si recò alcune volte in Oriente e, nel 1571, si trovava a Cipro quando la città dovette soccombere all'assalto dei Turchi. Nel 1578 venne chiamato all'Università di Ferrara, incarico che ricoprì sino al 1592, quando il cardinale Aldobrandini lo invitò a trasferirsi a Roma per assumere la cattedra di filosofia alla "Sapienza". Il cardinale, una volta divenuto Papa con il nome di Clemente VIII, continuò sempre ad onorarlo.
Patrizi morì a Roma nel 1597, e venne sepolto a Sant'Onofrio nella stessa tomba del Tasso. Patrizi fu una delle figure più significative dell'Italia intellettuale del XVI secolo, una delle menti più vaste e più dotte che l'abbiano onorata. Egli estese i propri interessi in tutti i campi della conoscenza e volle fare della filosofia la sintesi del sapere. La sua opera, amplissima, abbraccia la letteratura, l'arte, la critica, la storia, la scienza, l'arte militare, la filosofia.
Fu anche poeta, ma non ebbe molto successo. Volendo innovare anche in questo campo, nel 1558 pubblicò un poema, Eridano, scritto in nuovi versi "eroici" di tredici sillabe. Nel 1560 apparvero i dieci suoi dialoghi Della Historia, e nel 1562 altri dieci Della Retorica. Poi si applicò alla filosofia, pubblicando nel 1581 le Discussioni peripatetiche. Due anni più tardi, seguendo forse l'esempio del Machiavelli, ma certamente per amore dell'Italia, con la sua Milizia Romana di Polibio, di Tito Livio e di Dionigi di Alicarnasso, affrontò una questione completamente diversa.
A Ferrara proseguì negli studi letterari e di filosofia, partecipando al vasto movimento intellettuale italiano ed alle diverse controversie accademiche. Nel 1585 pubblicò un Parere in difesa di Ludovico Ariosto e l'anno successivo tornò ad interessarsi di poesia pubblicando: Della Poetica-La Deca historiale e Della Poetica-La Deca disputata.
Successivamente tornò ad occuparsi di scienze. Nel 1587 pubblicò la Nuova geometria dedicata a Carlo Emanuele di Savoia, e la Philosophia de rerum natura, che sollevarono il più grande interesse. Poco prima di partire per Roma scrisse la sua più importante opera filosofica, Nova de Universis Philosophia, salutata al suo apparire - 1591 - come la creazione di un genio, ma respinta e stigmatizzata dalle autorità ecclesiastiche. Fra le altre sue opere principali vanno anche citati i Paralleli militari, apparsi nel 1594. Patrizi appartenne a quella "élite" di italiani per i quali gli orizzonti erano sempre troppo ristretti, e troppo limitati i campi aperti alle loro attività. Essi tendevano ad elevarsi sino ai vertici del sapere umano per conseguire una più ampia visione del loro molteplice lavoro. Nel 1578 si occupò anche di opere idrauliche, e presentò al Bentivoglio uno studio per separare le acque del Reno da quelle del Po. Nello stesso tempo approfondì la musica teorica e, in merito alla musica greca - come gli riconobbe Zenatti nella sua opera Francesco Patrizi, Orazio, Ariosto e Torquato Tasso - scrisse "meglio di Galileo, di Gaffuri e Valgurio". Tentò tutte le strade del sapere, avido di percorrere quelle che non erano state ancora battute. Cercò di riformare la filosofia e la matematica, la poesia e la storia, la botanica, la fisica, e l'arte della guerra. Fornì importanti contributi allo studio dei fenomeni naturali. Gli si attribuisce il merito di averli per primo osservati con una penetrante originalità, ed è considerato un innovatore nello studio della luce, in quello del flusso e del reflusso delle acque, nella teoria del movimento della terra, nella ricerca del sistema riproduttivo delle piante. Di grandissima importanza la sua Nova de Universis Philosophia (1591), elaborata per combattere l'aristotelismo e la scolastica, per affermare nella sua pienezza il platonismo. È uno di quei lavori che si collocano alla soglia dei tempi moderni e che, chiudendo con il passato, segnano un momento luminoso nella storia della civiltà italiana. È la prima grande opera che precede il glorioso rinnovamento della scienza italiana che si realizzò al tempo di Galileo e continuò nel secolo XVII. Questa opera, tormentata e non usuale, divisa in quattro parti, "Panaugia" o della luce; "Panarchia" o del principio delle cose; "Pampsichya" o dell'anima; "Pancosmia" o del mondo, conserva ancora oggi la sua grandiosa architettura ed egli, negli spazi ancora oscuri per la sua epoca, fa apparire splendidi squarci di luce. Si può ben dire che il neoplatonismo che rinnoverà l'Italia trova la sua forza principale in Patrizi. Già ai suoi tempi, Francesco Patrizi, venne onorato come un grande Italiano. Secondo il Rossi, un biografo del XVII secolo, fu il più dotto di tutti gli italiani della sua epoca.
Scriveva volutamente in italiano i dialoghi sull'arte Della Poetica per cooperare al trionfo di questa lingua sul latino. E nella prefazione sostiene la prevalenza del "volgare" rispetto all'esclusivismo della lingua dotta e latina degli umanisti. Posizione culturale che gli procurò un onore al quale teneva molto: far parte dell'Accademia della Crusca dove entrò nel 1587. Le desolanti condizioni nelle quali, allora, si trovava l'Italia, sotto il giogo di tanti stranieri, incapace di sollevarsi e di prendere con la forza delle armi il proprio posto di nazione viva e potente, angustiava Patrizi al pari di Machiavelli, di Guicciardini, del Castiglione, e di altri scrittori italiani del Cinquecento. Scrisse i suoi lavori sull'esercito romano e sull'arte militare pur sapendo di avventurarsi in un campo dove non era competente, ma sperava che l'Italia, apprendendo l'esercizio delle armi e seguendo l'esempio degli antichi, potesse tornare quello che era stata durante l'epoca romana: libera e grande.

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