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PER L'ABOLIZIONE DEI DIRITTI
D'AUTORE
La proprietà intellettuale è un
furto!
È legittimo che gli artisti
ricevano una giusta remunerazione dal loro lavoro. I diritti d'autore
sembrano rappresentare una delle loro più importanti fonti di reddito.
Purtroppo stanno diventando uno dei prodotti più commerciali del XXI
secolo. Il sistema non sembra più capace di proteggere gli interessi
della maggioranza di musicisti, compositori, attori, ballerini, scrittori,
designer, pittori o registi... Una constatazione che spinge ad aprire un
dibattito sulle strade da ricercare per assicurare agli artisti i mezzi
per vivere del loro lavoro e garantire alle creazioni il meritato
rispetto.
di JOOST SMIERS *

http://andrewkeen.typepad.com/photos/uncategorized/portrait_joost_smiers_1.jpg
I grandi gruppi culturali e
d'informazione coprono il mondo intero con satelliti e cavi. Ma possedere
tutti i canali d'informazione del mondo ha senso solo se si possiede
l'essenziale del contenuto, di cui il copyright costituisce la forma
legale di proprietà. Attualmente nel settore della cultura assistiamo ad
una vera giungla di fusioni, come quella di Aol e Time Warner. Tutto
questo rischia di far sì che, in un prossimo futuro, sia solo un
gruppetto di poche compagnie a disporre dei diritti di proprietà
intellettuale su quasi tutta la creazione artistica, passata e presente.
Il modello è Bill Gates e la sua società Corbis, proprietari dei diritti
di 65 milioni di immagini in tutto il mondo, di cui 2,1 milioni
disponibili in rete (1).
Il concetto, un tempo utile, di diritto d'autore diventa così uno
strumento di controllo del bene comune intellettuale e creativo, nelle
mani di un ristretto numero di imprese. Non si tratta solo di abuso che
sarebbe facile individuare. L'antropologa canadese Rosemary Coombe,
specialista in diritti d'autore, osserva che «nella cultura consumistica,
la maggior parte di immagini, testi, etichette, marchi, logo, disegni,
arie musicali e anche colori sono governati, se non controllati, dal
regime di proprietà intellettuale (2).»
Le conseguenze di questo controllo monopolistico sono spaventose.
I pochi gruppi dominanti dell'industria culturale trasmettono solo le
opere artistiche o di intrattenimento di cui detengono i diritti.
Si concentrano sulla promozione di alcune star, sulle quali investono
fortemente e guadagnano sui prodotti derivati. A causa dei rischi elevati
e delle esigenze di ritorno sull'investimento, il marketing rivolto ad
ogni singolo cittadino del mondo è così aggressivo che tutte le altre
creazioni culturali sono eliminate dal panorama mentale di molti popoli. A
scapito della diversità delle espressioni artistiche, di cui abbiamo
disperatamente bisogno in una prospettiva democratica.
Si assiste anche ad una proliferazione di norme legali su tutto ciò che
riguarda la creazione. Le società che comprano l'insieme dei diritti, li
proteggono con regole molto dettagliate e fanno difendere i loro interessi
da avvocati altamente qualificati. Improvvisamente, l'artista deve fare
attenzione a che queste società non gli rubino il lavoro. Per difendersi
è costretto ad assumere a sua volta degli avvocati, anche se i suoi mezzi
economici sono molto più limitati.
Vivere decentemente del lavoro creativo Con il sistema dei diritti
d'autore le grandi compagnie fanno fortuna.
Ma la pirateria che «democratizza» l'uso, in casa propria, della musica
e di altri materiali artistici, le minaccia. Con un suo giro di affari
pari a 200 miliardi di dollari l'anno, disturba l'accumulazione di
capitale (3). Tuttavia la
lotta contro la contraffazione sembra vanificata dall'invenzione di Mp3,
Napster, Warapster, ecc. Questi ultimi rendono possibile in pochi minuti
il telecaricamento di notevoli quantità di musiche, immagini, film o
software dallo stock virtuale di dati disponibili in tutto il mondo. Un
fenomeno che l'industria del disco e la sua associazione, la Riaa (Recording
Industry Association of America), non apprezzano affatto.
Philip Kennicott, un ricercatore australiano, ritiene che Napster permetta
di scavalcare completamente il circuito commerciale della produzione
musicale. «Gli americani, scrive, commettono l'errore di paragonare un
certo stile di cultura popolare - come le grandi macchine prodotte
dall'industria americana - con la cultura americana, come se i film
spettacolari e i dischi venduti a milioni di copie rappresentassero, da
soli, la creatività degli Stati uniti. È affascinante pensare che i
prodotti di divertimento formino il cemento culturale che unisce i popoli.
Ma questo tipo di cultura popolare, di cui le industrie sono proprietarie,
è molto diversa dalla cultura del popolo, che non appartiene a nessuno (4).»
Per di più, computer e Internet forniscono agli artisti un'occasione
unica di creare utilizzando materiali che provengono da correnti
artistiche di tutto il mondo, del passato e del presente. E in questo
senso non fanno nulla di diverso da ciò che hanno fatto i loro
predecessori: Bach, Shakespeare e migliaia di altri. È sempre stato
normale utilizzare idee e parte del lavoro dei precursori. Altra cosa è
il plagio.
Su questo fenomeno, il filosofo Jacques Soulillou sviluppa un interessante
commento teorico: «La ragione per la quale è difficile produrre la prova
di plagio nel campo dell'arte e della letteratura sta nel fatto che non
basta soltanto dimostrare che B si è inspirato ad A, senza citare
eventualmente le sue fonti, ma bisogna anche provare che A non si è
ispirato a nessuno. Il plagio suppone infatti che la regressione di B
verso A si esaurisca lì, perché si arrivasse a dimostrare che A si è
inspirato, e per così dire ha plagiato un X che cronologicamente lo
precede, la denuncia di A ne risulterebbe indebolita (5).»
La sua analisi ricorda non solo che il sistema dei diritti d'autore
diventa sempre meno sostenibile, ma anche che questo sistema è fondato su
un concetto meno evidente di quanto non sembri. Si può forse immaginare
un poema creato senza poemi antecedenti ? Ecco perché Rosemary Coombe si
chiede fino a che punto l'immagine di una star e il suo valore sia dovuto
ai suoi sforzi personali. «Le immagini della diva devono essere
costruite... Le immagini delle star sono il prodotto di studi
cinematografici, media, agenzie di pubbliche relazioni, club di
ammiratori, cronisti, fotografi, parrucchieri, insegnanti di ginnastica,
professori, registi, addetti ai lavori, direttori, avvocati e medici (6).»
Senza dimenticare il ruolo del pubblico, a proposito del quale la stessa
Marylin Monroe dichiarava: «Se sono una star, è perché il pubblico ha
fatto di me una star, né gli studios né altri, solo il pubblico (7).»
Abbiamo bisogno di un sistema di proprietà intellettuale per promuovere
creatività? Assolutamente no. Un numero sempre maggiore di economisti,
dati alla mano, dimostra che l'espandersi dei diritti d'autore favorisce
più chi investe che chi crea e interpreta. Di fatto il 90% del reddito
ottenuto a questo titolo va al 10% degli artisti. L'economista britannico
Martin Kretschmers conclude che «la retorica dei diritti d'autore è
stata ingigantita essenzialmente da un terzo partner: Gli editori e le
case discografiche, cioè da coloro che investono in creatività (più che
dagli artisti), diventati i primi beneficiari di questa protezione estesa (8)».
Il sistema non favorisce neppure il terzo mondo. Come spiega il
l'universitario James Boyle, per acquisire il diritto di proprietà
intellettuale un artista deve essere affermato. «Questa esigenza
favorisce in maniera sproporzionata i paesi sviluppati. Così curaro,
batik, miti e il ballo lambada volano via dai paesi in via di sviluppo
senza alcuna protezione, mentre il Prozac, i pantaloni Levi's, i romanzi
di John Grisham e Lambada, il film, vi ritornano protetti da un insieme di
leggi sulla proprietà intellettuale (9)».
Sarebbe giusto studiare un altro sistema che favorisse la diversità della
creazione artistica. Rosemary Coombe individua la contraddizione che
dovrebbe essere risolta: «La cultura non è fissata in concetti astratti
che interiorizziamo, ma nella materialità delle esperienze e degli
argomenti sui quali ci battiamo e nel segno che queste lotte lasciano
nella nostra coscienza. Questa discussione e la battaglia attualmente in
corso sui sentimenti sono al centro del dialogo. Molte interpretazioni
delle leggi relative alla proprietà intellettuale, facendo appello al
concetto astratto di proprietà, soffocano il dialogo sostenendo il potere
della corporazione degli attori sul mondo dei sentimenti. Le leggi sulla
proprietà intellettuale privilegiano il monologo al dialogo e creano
grandi differenziali di potere tra attori sociali impegnati in una lotta
egemonica (10)». Il
concetto centrale è quindi il dialogo.
Secondo obiettivo del nuovo sistema: deve garantire ad un alto numero di
artisti, appartenenti a paesi sia poveri sia ricchi, di vivere
decentemente del loro lavoro creativo. Per tutte queste ragioni, il
mantenimento dell'attuale sistema dei diritti d'autore non risulta né
auspicabile, né realizzabile.
La relazione diretta con l'artista, come la concepiva inizialmente la
filosofia del diritto d'autore, in pratica non esiste più. Perché non
fare un ulteriore passo abolendo l'intero sistema? Perché non sostituirlo
con un altro in grado di garantire una migliore remunerazione sia agli
artisti del terzo mondo che a quelli dei paesi sviluppati, un maggior
rispetto del loro lavoro e la capacità di riportare il pubblico al centro
della nostra attenzione?
A prima vista, può sembrare contraddittorio che un artista, di un paese
sviluppato o del terzo mondo, possa vivere meglio senza i diritti
d'autore. Tuttavia, questa possibilità deve essere presa in seria
considerazione. Senza dubbio l'aspetto più radicale della proposta sta
nel fatto che diminuirà l'entusiasmo suscitato dalle industrie culturali
per le loro star. Non avranno più interesse a investire in modo massiccio
su «fenomeni» capaci di attirare il grande pubblico, se non possono poi
sfruttarle in modo esclusivo; il che, dopotutto, è il principio di base
dei diritti d'autore.
Se questi ultimi scomparissero, non esisterebbero più industrie
monopolistiche della cultura capaci di determinare il gusto comune con la
promozione dei loro protetti. Per l'artista medio, la situazione
ritornerebbe «normale»: potrebbe di nuovo trovare mercati e pubblici
diversi, nel suo ambiente e su scala mondiale, via Internet; potrebbe così
guadagnare normalmente, e anche di più.
Le imprese e chiunque utilizzi materiali artistici sarebbero liberati dal
pagamento dei diritti d'autore e dalle scartoffie burocratiche connesse.
Ma questo non vuol dire che non si dovrà pagare per l'utilizzazione di un
lavoro artistico. Chi usa a scopo commerciale creazioni artistiche e
spettacoli fa ricorso a musiche, immagini, disegni, testi, film,
coreografie, pittura, multimedia... per suscitare desideri e guadagnare di
più. Contro l'industria culturale Si potrebbe allora pensare ad una tassa
prelevata sui profitti delle imprese che in un modo o nell'altro
utilizzano materiale artistico.
Il che riguarda la quasi totalità delle aziende. Il denaro così
prelevato potrebbe essere assegnato ad un fondo speciale, secondo
procedure fissate per legge, con tre categorie di beneficiari: i gruppi di
artisti, gli artisti individuali e quelli del terzo mondo. Verrebbe quindi
eliminata la connessione diretta - misurata in quantità, minuti o altro -
tra l'utilizzazione attuale del lavoro di un artista e la sua
remunerazione.
Quanto ai diritti morali che dovrebbero proteggere l'integrità del lavoro
artistico e scientifico dall'imitazione, è ora di riconoscere che frenano
la creazione artistica. La conclusione logica dovrebbe essere di eliminare
anche questi. Nella società occidentale abbiamo creato una strana
situazione: corriamo in tribunale non appena riteniamo che un diritto
d'autore sia stato violato... Ma se non c'è proprietà in senso assoluto,
allora non c'è niente da violare e da citare in giudizio. Il problema
centrale nei nostri dibattiti dovrebbe consistere nel verificare se l'uso
(di una parte) delle opere di altri artisti è stato fatto con rispetto e
apporto di nuova creatività. O al contrario, se è raffazzonato, noioso o
obiettivamente mal fatto. Un artista che prenda in prestito troppo
facilmente dai suoi predecessori o da uno dei suoi contemporanei non potrà
che essere considerato un artista minore.
Immaginiamo comunque che una persona copi il lavoro di un altro artista,
asserisca che è suo e lo firmi. Se non c'è né rielaborazione, né
commento culturale, né aggiunta, né traccia di creatività, si tratta
evidentemente di un vero e proprio furto che merita di essere sanzionato.
A questo punto, l'obiettivo dovrebbe essere la creazione di un nuovo
sistema che garantisca agli artisti dei paesi occidentali e del terzo
mondo redditi migliori, che si apra in modo ampio a un dibattito pubblico
sul valore della creazione artistica, che si preoccupi del miglioramento
del livello culturale del pubblico, che spezzi il monopolio delle
industrie della cultura, le quali vivono sul sistema dei diritti d'autore.
note:
* Direttore del centro di ricerche e professore ordinario all'Università
delle arti, Utrecht (Paesi Bassi). In particolare autore di Etat des lieux
de la création en Europe. Le tissu culturel déchiré, L'Harmattan,
Parigi, 1999.
(1) C. Alberdingk Thijm,
Websurfen? Treck je creditcard, Het Parool, Amsterdam, 7 marzo 2000.
(2) Rosemary J. Coombe, The
Culturel Life of Intellectual Properties, Authorship, Appropriation and
the Law, Durhamand, Londra,1998.
(3) Christian De Brie «L'economia
criminale», Le Monde diplomatique/il manifesto, aprile 2000.
(4) Philip Kennicott, «Napster
gives musicians a chance to be heard», International Herald Tribune, 1°
agosto 2000.
(5) Jacques Soulillou, L'auteur,
mode d'emploi, L'Harmattan, Parigi, 1999.
(6) Rosemary J. Coombe, op. cit.
(7) Rosemary J. Coombe, op. cit.
(8) Martin Kretschmers,
Intellectual Property in Music. An Historical Analysis of Rethoric and
Institutional Practices, Paper, City University Buisiness School, Londra,
1999.
(9) James Boyle, Shamans,
Software and Spleens. Law and the Construction of Information Society,
Harvard University Press, Cambridge MA, 1996.
(10) Rosemary J. Coombe, op.
cit.
(Traduzione di G. P.)
http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/LeMonde-archivio/Settembre-2001/0109lm28.01.html
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14.05.02
NUOVI
CONFINI PER LA PROPRIETÀ INTELLETTUALE
Presentata
ufficialmente alla conferenza tecnologica di Santa Clara, è nata la
Creative Commons, società no-profit creata da Lawrence Lessig, autorevole
professore della Standford Law School ed esperto di cyberdiritto, e un
gruppo di studiosi del suo ateneo. L'obiettivo è quello di ridisegnare i
confini della proprietà intellettuale, cercando di evitare il pericolo
che la creatività e l'innovazione vengano inibiti da regimi di protezione
eccessivamente severi. In sostanza Lessig e i professori del Mit stanno
lavorando alla creazione di un mercato legale e parallelo di licenze
gratuite che, con il consenso e la collaborazione dei creatori delle
opere, definiscano nuovi termini entro i quali sarà possibile l'utilizzo
delle creazioni. E' la politica del compromesso e sancisce un nuovo
atteggiamento, diverso da quello scelto dai libertari della Rete e
ispirato al movimento del "free software". Sì alla protezione,
ma sì anche a chi voglia condividere le proprie musiche, i propri scritti
e i propri programmi, permettendo alla gente di copiare per usi non
commerciali. Inoltre il Creative Commons si propone un'opera di
sensibilizzazione dell'opinione pubblica verso gli "effetti
collaterali" della legge del '98, declinando gli interessi della
produzione a quelli della collettività e tentando di ridurre il periodo
eccessivamente lungo del copyright.
(CORRIERE
DELLA SERA)
http://www.sitodelgiorno.com/tamtam/tecno/tecno5.htm
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Paradossi del copyright
di Raffaele Mastrolonardo
Non sono pochi quelli che pensano che il copyright sia un concetto che merita una nuova formulazione. Nato come strumento elastico per favorire la produzione culturale, si è progressivamente trasformato quasi ovunque in una legge sulla proprietà. Secondo molti, in questa evoluzione, il concetto si è infine rivoltato nel suo opposto, vale a dire, un ostacolo alla creatività che intendeva salvaguardare.
La causa tra il Sudafrica e le multinazionali del farmaco sui medicinali anti-aids e analoghe vertenze in altri paesi del terzo mondo hanno mostrato in modo lampante alcune conseguenze paradossali della attuale legislazione sulla cosiddetta proprietà intellettuale. Mentre milioni di persone muoiono a causa dell’Hiv, i loro governi non possono produrre i farmaci che potrebbero salvarle senza incorrere nelle denuncie dei proprietari del brevetto, i quali però vendono le medicine a prezzi inaccessibili per quei governi.
Se quello dei farmaci anti-aids è un caso drammatico, altre iniziative più estemporanee hanno recentemente cercato di illuminare alcuni aspetti perversi del copyright versione inizio millennio.
E’ di pochi giorni fa la notizia che due australiani, Nigel Helyer e Jon Drummond, hanno brevettato 100 miliardi di sequenze di toni telefonici, vale a dire le melodie composte ogni qualvolta premiamo i tasti di un telefono. Questo significa che quando chiamiamo un amico rischiamo di riprodurre una sequenza musicale soggetta a copyright e quindi rischiamo di violare le leggi internazionali in materia.
I due australiani hanno utilizzato un algoritmo in grado di generare tutte le combinazioni possibili da 16 coppie di toni iniziali. Lo scopo di Helyer e Drummond è evidentemente provocatorio: se si possono avanzare pretese di copyright sul Dna umano, vale a dire il nostro patrimonio più intimo, perché non farlo sulle sequenze di toni prodotte ogni giorno da miliardi di individui? E’ dunque possibile recarsi sul sito dei due immaginifici australiani (www.magnus-opus.com) e controllare se la melodia prodotta dal proprio numero di telefono è di loro proprietà. In questo caso, non resta che compilare un modulo già predisposto che ci fornirà l’autorizzazione all’utilizzo della sequenza numerica (e musicale) desiderata.
Ma non si rischia di violare la legge sul copyright solo facendo una telefonata. Anche guidare una macchina o pedalare su una bicicletta comporta dei rischi. La storia è curiosa e coinvolge un’invenzione vecchia di millenni, un premio Nobel particolare e l’ufficio brevetti australiano (sempre lui). Scorriamola a ritroso.
La settimana scorsa sono stati assegnati, come ogni anno, gli Ig Nobel Prize per le migliori invenzioni “impossibili”. Il premio della categoria “tecnologia” è stato assegnato non ad uno scienziato ma ad un giovane avvocato, John Keogh, anche lui, come Helyer e Drummond, australiano. L’invenzione che gli è valsa l’ambita onorificenza? La ruota, o meglio un “dispositivo circolare che facilita il trasporto”, registrato qualche mese fa all’Ufficio brevetti australiano con il numero #2001100012.
L’intento di Keogh è mostrare le falle del meccanismo che permette di ottenere la proprietà di un’idea o di un’invenzione. E’ molto facile infatti spingere questo sistema all’estremo con conseguenze gravi sulla creatività e lo sviluppo, privando così legittimi fruitori dei benefici di tecnologie condivise. Quello che, secondo i critici più radicali della proprietà intellettuale, fanno ogni giorno impunemente grandi gruppi industriali.
A questo punto l’Ufficio brevetti australiano può decidere di contestare la registrazione, accusando Keogh di frode e portandolo in tribunale. Proprio quello che l’avvocato si augura. Quella giudiziaria è infatti la sede adatta per dimostrare l’inefficienza del sistema di brevetto australiano, che ha recentemente introdotto la categoria delle “Innovation patent”, per ottenere le quali si deve solo mostrare che c'è dell'innovazione nella propria invenzione. Con il risultato, secondo Keogh, che quasi tutto può essere brevettato.
http://www.smau.it/smau/view_NO.php?IDcontent=9844
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La mente umana, l'identità e l'intelligenza
collettiva
L'intelligenza collettiva non è semplicemente un
modo di lavoro collettivo. E' anche una modalità operativa di
conoscenza del mondo. Di fatto non sarebbe possibile ritenere l'enorme
quantità di informazioni significative che ogni giorno, fin dalla
nascita, percepiamo attraverso l'esperienza. Per fronteggiare questo
problema l'umanità ha creato nel suo procedere storico un'enormità
di artefatti cognitivi, disseminati negli oggetti, nei testi, nei
comportamenti e nella lingua in generale. Ovverosia gli oggetti si
danno alla nostra percezione fornendoci attraverso forma e sostanza le
tracce inerenti al loro senso ed uso. In pratica il processo del
nostro pensiero non si avvale esclusivamente degli input che emergono
dall'interno, ma si appoggia a una parte della mente disseminata negli
artefatti cognitivi di cui il mondo abbonda. Il nostro pensiero,
funziona grazie ad una parte della nostra mente collettiva che risiede
nelle cose che ci circondano e che sono il prodotto delle molteplici
culture che si sono susseguite, mescolate, sussunte e rielaborate.
Questo vuol dire che non possiamo fare a meno
dell'intelligenza collettiva per elaborare pensieri sensati. Che,
dunque, qualsiasi cosa prodotta da ognuno di noi è contemporaneamente
anche il frutto dello sforzo del resto della collettività nello
spazio e nel tempo.
E' difficile quindi pensare di poter assegnare ad
alcuni il diritto di possedere una proprietà intellettuale esclusiva
su qualcosa.
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Uno dei processi in base a cui funziona la
mente umana è anche quello della ricombinazione delle idee sulla
base di un processo analogo al funzionamento dei geni per le
cellule, che R. Dawkins ha definito "memi". Le nostre
idee, attraverso i memi, farebbero in qualche modo parte del
nostro apparato riproduttivo influenzando, ed essendo influenzati
nel nostro sviluppo evolutivo dallo sviluppo dell'umanità nel suo
complesso.
(A. Di Corinto e T. Tozzi, Hacktivism. La
libertà nelle maglie della rete, Manifestolibri, Roma 2002 http://www.hackerart.org/storia/hacktivism.htm
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“Abbasso il copyright”:
arriva Illegal Art
Una mostra in Rete denuncia gli eccessi repressivi delle leggi sul
diritto d’autore. Ironizzando su Topolino, la Barbie e il Viagra
di Francesca Reboli
Bill Barminnski ha 40 anni e ce l’ha con Topolino. In realtà non
è tenero nemmeno con altri celebri inquilini di casa Disney; infatti se
l’è presa anche con lo strappalacrime Bambi e con quel bonaccione di
Fred Flinstone. Per non parlare dell’onnipervasiva, onnipresente,
multiforme Barbie, reginetta global targata Mattel.
Senza pietà, li ha presi e li ha trasformati in impressionanti maschere
anti-gas: quanto di più lontano possibile dall’immagine bonaria e
rassicurante di amici dei più piccoli in nome della quale le loro case
madri li hanno pensati, realizzati, e commercializzati in tutto il mondo,
non prima di averli brevettati con tutti i crismi della legge.
Di professione, Barminski
fa l’artista multimediale: dipinge, ma crea anche video e musica
digitale. E’ uno dei trenta creativi, per lo più nord-americani,
riuniti dalla mostra Illegal
Art che per tutta l’estate girerà gli Stati Uniti (fino al 7
giugno a Washington; poi dal 2 al 25 luglio al MOMA di San Francisco,
interamente visibile anche on line) allo scopo di denunciare gli eccessi
delle leggi americane sul copyright e i pesanti tentativi di censura da
parte delle grandi compagnie.
“L’arte”, sostengono i promotori della mostra - organizzata dalla
rivista Stay
Free! e dal sito Internet Archive,
da tempo impegnati nella battaglia contro il diritto d’autore –
“deve essere libera di appropriarsi, manipolare e modificare loghi,
marchi registrati, personaggi e opere protette dal copyright”.
Da qui il carattere “illegale” delle creazioni presentate dalla
mostra, che si fanno beffe senza vergogna di Topolini, Viagra, Pikachu,
Strabucks e compagnia bella. No logo, dunque, e soprattutto no DMCA.
Ovvero Digital Millenium Copyright Act: la legge che in America vieta la
copia, lo scambio, il download di opere protette da copyright, dai Dvd ai
libri ai cd musicali.
Fortemente critici nei confronti di questa legge, gli organizzatori e
gli artisti di Illegal Art sostengono che nessuna opera dell’ingegno è
originale: ciascuna nasce da precedenti suggestioni, da influenze
pregresse ed è sempre il risultato di un métissage culturale e
immaginifico. Tanto più nell’era digitale, dove ciascuno ha accesso
diretto ai mezzi di produzione della cultura e dell’arte. Dove ciascuno,
secondo una definizione data dal collettivo Wu
Ming , laboratorio culturale italiano, è un “prosumer”, cioè
al tempo stesso un produttore e un consumatore.
Prosumer oggi è più di una definizione. Tutti infatti possono essere
prosumer, come dimostra il sito francese Artlibre.org, che si propone di
estendere e promuovere il concetto di copyleft all’arte contemporanea in
tutte le sue forme: musica, letteratura, scultura, pittura, cinema.
Basta collegarsi al sito, scegliere un’opera digitale – disegno,
testo, partitura musicale che sia - scaricarla sul proprio computer e
manipolarla a piacere.
Chi volesse provare, per gioco, può anche salvare sul disco
rigido il simbolo del copyritght (©) e colorarlo di verde, di rosso, di
giallo, rovesciarlo, capovolgerlo, duplicarlo, eccetera. Le opere
archiviate su Artlibre sono rielaborazioni, proprio come quelle degli
artisti di Illegal Art, tra cui il graphic designer Kieron Dwyer che
presenta la sua personale interpretazione del logo della famosa catena Starbucks
: al posto della scritta “Starbucks Coffee” ci mette “Consumer Whore”
(puttana dei consumatori) e al posto delle stelline il simbolo dei
dollari.
È il Viagra invece l’obiettivo di Michael Hernandez de Luna: ha
fotografato la pillola blu e l’ha riprodotta su falsi francobolli che ha
poi incollato su buste e spedito via posta, violando più leggi allo
stesso tempo, quelle sul copyright, e quelle postali.
La mostra non si chiama “illegal” per niente. Non tutti questi
artisti infatti la passano liscia. La maggior parte delle volte le grandi
compagnie la prendono male e, senza alcun senso dell’ironia, minacciano
azioni legali contro i manipolatori dei loro preziosi loghi.
I più riescono a evitare i guai appellandosi al diritto di satira e alla
possibilità prevista dalla legislazione americana di usare opere protette
dal copyright a fini parodistici, ma a qualcun’altro le cose vanno
storte.
Dal 1999 Tom Forsythe è in ballo con la Mattel, a causa della solita,
odiosa Barbie. L’artista aveva preso la bambola dalle misure perfette,
l’aveva denudata e cacciata sadicamente dentro frullatori e altri arnesi
da cucina.
La compagnia non ha gradito e ha fatto causa a Forsythe che ha vinto in
primo grado, ma che è ancora sotto tiro perché la Mattel è ricorsa in
appello.
Per sostenere le spese legali Forsythe si è appoggiato alla associazione
no profit Creative
Freedom Defense Funds che ospita anche il suo sito personale.
Come andrà a finire? E’ presto per dirlo. Intanto, sul sito di
Illegal Art i visitatori possono scaricare file video che trattano da
varie angolazioni il problema del copyright e della censura e una
compilation di Mp3 illegali, perché utilizzati senza permesso.
http://www.espressonline.it/eol/free/jsp/detail.jsp?m1s=null&m2s=c&idCategory=4797&idContent=203032
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http://www.apogeonline.com/webzine/2003/01/14/13/200301141301
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Questo lungo articolo spiega come si può arrivare al
superamento del concetto di copyright, in un mondo in cui
la creatività non sia dominata dal denaro. E mostra che
il copyright è nato per proteggere un modello di business
e non gli interessi degli artisti. E sia stato originato
dalla censura.
C'è un gruppo di persone che non sono sorprese dalla
recente decisione dell'industria discografica di andare in
giudizio contro utilizzatori scelti a caso del file
sharing: gli storici del copyright. Essi già sanno ciò
che tutti gli altri stanno scoprendo lentamente: che il
copyright non ha mai riguardato il pagamento degli artisti
per il loro lavoro; il copyright, più che essere pensato
per aiutare gli inventori, è stato pensato da e per i
distributori - cioè quelli che pubblicano, che oggi
comprendono le aziende discografiche. Ma ora che Internet
ci ha dato un mondo senza costi di distribuzione, non ha
più senso restringere la condivisione delle opere per
pagare una distribuzione centralizzata. Non solo è
possibile abbandonare il copyright, ma anche desiderabile.
Gli artisti e gli utenti ne avrebbero beneficio sia dal
punto di vista finanziario che artistico. Invece di coloro
che aprono le porte delle aziende e determinano cosa può
essere distribuito e cosa no, un meccanismo di selezione
più raffinato consentirebbe alle opere di diffondersi
solo in base al loro merito. Vedremmo un ritorno alla
vecchia e ricca cosmologia della creatività, in cui la
libera copia e il prestito delle opere è semplicemente
una parte normale del processo creativo, un modo per
riconoscere le proprie sorgenti e migliorare in base a ciò
che è stato fatto in passato. E la vecchia bufala che gli
artisti hanno bisogno del copyright per guadagnarsi da
vivere si rivelerebbe per la pretesa che è sempre stata.
Naturalmente niente di tutto ciò succederà se
l'industria continuerà il suo corso. L'industria
editoriale ha lavorato duramente per tre secoli, per
oscurare le vere origini del copyright e per sostenere il
mito che esso è stato inventato da scrittori ed artisti.
Ancora oggi essa continua la campagna per leggi contro la
condivisione più dure, per trattati internazionali che
obblighino gli stati ad adeguarsi alle più strette
regolamentazioni sul copyright e soprattutto per
assicurarsi che il pubblico non chieda mai chi,
precisamente, questo sistema vuole favorire.
Il premio a questi sforzi si vede nelle reazioni del
pubblico alle condanne per lo scambio di file. Anche se
molti concordano che stavolta l'industria si è spinta
troppo in là, l'errore viene trattato principalmente come
un errore di gradazione - come se le industrie
discografiche avessero buone ragioni ma, nel sostenerle,
fossero semplicemente ricorse ad un eccesso di forza.
Leggere la vera storia del copyright equivale a capire
come questa reazione giochi completamente a favore
dell'industria. Le aziende discografiche in realtà non si
preoccupano se vinceranno o perderanno i processi. A lungo
termine, nemmeno si aspettano di eliminare il file sharing.
Ciò per cui esse combattono è molto più grande.
Combattono per mantenere uno stato mentale, un'attitudine
verso il lavoro creativo, la quale dice che qualcuno deve
possedere i prodotti della mente e controllare chi può
copiarli. E l'industria ha avuto un successo sorprendente
posizionando il tutto come una contesa tra gli Artisti
Assediati, che si suppone abbiano bisogno del copyright
per pagare l'affitto, e le Masse Irragionevoli, che
vorrebbero copiare una storia o una canzone da Internet
invece che pagare un prezzo adeguato. Essi sono riusciti a
sostituire i termini caricati "pirateria" e
"furto" al più preciso "copia" - come
se non ci fosse differenza tra rubare la tua bicicletta
(adesso tu non hai più la bicicletta) e copiare la tua
canzone (adesso tutti e due abbiamo la canzone). Fatto
ancora più importante, la propaganda dell'industria ha
fatto diventare una credenza comunemente accettata l'idea
che il copyright sia il modo in cui la maggior parte dei
creatori guadagnano da vivere - che senza copyright i
motori della produzione intellettuale si fermerebbero e
gli artisti non avrebbero né i mezzi né le motivazioni
per produrre nuove opere.
Una visione ravvicinata della storia mostra inoltre che il
copyright non è mai stato un fattore importante per
consentire la fioritura della creatività. Il copyright è
un sottoprodotto della privatizzazione della censura
governativa nell'Inghilterra del sedicesimo secolo. Non ci
fu alcuna sollevazione di autori che improvvisamente
chiedevano il diritto di impedire agli altri di copiare i
loro lavori; gli autori, ben lontani dal vedere la copia
come furto, generalmente la vedevano come adulazione. La
maggior parte del lavoro creativo è sempre dipeso, allora
e oggi, da una diversità di fonti di finanziamento:
commissioni, lavori d'insegnamento, concessioni o
stipendi, patrocinio, etc.
L'introduzione del copyright non cambiò questa
situazione. Ciò che esso fece fu consentire un
particolare modello di business - la stampa di massa con
distribuzione centralizzata - per rendere disponibili
poche opere fortunate ad un'udienza più ampia, con
considerevole profitto dei distributori.
L'arrivo di Internet, con la sua distribuzione istantanea
a costo zero, ha reso obsoleto quel modello di business -
non soltanto obsoleto, ma un ostacolo a quei grandi
benefici che si dichiarava che il copyright dovesse
portare in primo luogo alla società. La proibizione al
popolo di condividere liberamente informazioni non serve a
nessun altro interesse che a quello degli editori.
Anche se le industrie vorrebbero farci credere che la
proibizione della condivisione è qualcosa che ha a che
vedere con il consentire agli artisti di guadagnarsi da
vivere, la loro affermazione non regge nemmeno ad un esame
superficiale.
Per la grande maggioranza degli artisti il copyright non
porta alcun beneficio economico. Vero, ci sono poche star
- alcuni dei quali con grande talento - le cui opere sono
appoggiate dall'industria; essi ricevono la parte del
leone dell'investimento in distribuzione e in modo analogo
generano il profitto più grande, che viene condiviso con
l'artista in termini migliori dell'usuale, perché la
posizione contrattuale dell'artista è più forte. In modo
per niente incidentale, queste star sono quelli che
l'industria sostiene come esempi dei benefici del
copyright.
Ma trattare questi piccoli gruppi come rappresentativi
vorrebbe dire confondere il marketing con la realtà. La
vita della maggior parte degli artisti non appare per
niente simile alla loro e mai lo sarà, nell'attuale
sistema basato sul profitto. Ecco perché lo stereotipo
dell'artista impoverito rimane vivo e vegeto dopo trecento
anni.
La campagna dell'industria editoriale per mantenere il
copyright è intrisa di puro interesse personale, ma ci
forza ad una scelta chiara. Possiamo guardare a come gran
parte della nostra eredità culturale viene contenuta in
una macchina per vendere e rivenduta a noi dollaro per
dollaro - oppure possiamo riesaminare il mito del
copyright e trovare un'alternativa.
La prima legge sul copyright fu una legge di censura. Essa
non aveva niente a che fare con la protezione dei diritti
degli autori, o con il loro incoraggiamento a produrre
nuove opere. Nell'Inghilterra del sedicesimo secolo i
diritti degli autori non correvano alcun rischio ed il
recente arrivo della macchina per stampare (la prima
macchina per copiare del mondo) era qualcosa che stimolava
gli scrittori. Così stimolante, infatti, che il governo
inglese cominciò a preoccuparsi per le troppe opere che
venivano prodotte, non troppo poche. La nuova tecnologia,
per la prima volta, stava rendendo ampiamente disponibili
letture sediziose ed il governo aveva bisogno urgente di
controllare il fiume di materiale stampato, essendo allora
la censura una funzione amministrativa legittima come la
costruzione di strade.
Il metodo scelto dal governo fu di stabilire una
corporazione privata di censori, la London Company of
Stationers (Corporazione dei Librai di Londra), i cui
profitti sarebbero dipesi da quanto bene essi avrebbero
realizzato il proprio lavoro. Agli Stationers fu concesso
il diritto su tutta la stampa in Inghilterra, sia per le
vecchie opere che per le nuove, come premio per mantenere
un occhio stretto su ciò che veniva pubblicato. Il loro
documento di concessione diede loro non solo il diritto
esclusivo di stampare, ma anche il diritto di cercare e
confiscare le stampe ed i libri non autorizzati e
addirittura di bruciare i libri stampati illegalmente.
Nessun libro poteva essere stampato fino a che non era
entrato nel Registro della corporazione e nessun'opera
poteva essere aggiunta al registro finché non aveva
passato il censore della corona, o era stato auto -
censurato dagli Stationers. La Company of Stationers
diventò, in effetti, la polizia privata, dedita al
profitto, del governo[1].
Il sistema era stato apertamente progettato proprio per
servire i venditori di libri ed il governo, non gli
autori. I nuovi libri venivano immessi nel registro della
corporazione sotto il nome di un membro della
corporazione, non sotto il nome dell'autore. Per
convenzione, il membro che aveva registrato il libro
manteneva il "copyright", il diritto esclusivo
di pubblicare quel libro sugli altri membri della
corporazione, e la Court of Assistants della Corporazione
risolveva le dispute su eventuali infrazioni[2].
Questa non fu semplicemente una nuova manifestazione di
qualche forma di copyright preesistente. Non è come se
gli autori avessero avuto precedentemente il copyright,
che ora era stato tolto a loro e dato agli Stationers. Il
diritto degli Stationers era un nuovo diritto, per quanto
fosse basato su una lunga tradizione di concedere i
monopoli alle corporazioni, in modo da usarle come mezzo
di controllo. Prima di questo momento il copyright - cioè
il generico diritto, tenuto privatamente, di proibire agli
altri la copia - non esisteva. La gente stampava
normalmente, quando aveva la possibilità, le opere che
ammirava, un'attività che è responsabile della
sopravvivenza di molte di quelle opere fino al giorno
d'oggi. Naturalmente si potrebbe proibire la distribuzione
di un documento specifico a causa del suo potenziale
effetto diffamatorio, o perché esso era una comunicazione
privata, o perché il governo lo considera pericoloso e
sedizioso. Ma queste sono ragioni di salute pubblica o
danno alla reputazione, non di diritto di proprietà. In
alcuni casi c'erano stati anche privilegi particolari
(allora chiamati "patenti") che consentivano la
stampa esclusiva di certi tipi di libri. Ma fino alla
Company of Stationers non c'era stata un'ingiunzione
globale contro la stampa in generale, né una concezione
del copyright come una proprietà legale che potesse
essere posseduta da una parte privata.
Per circa un secolo e mezzo questa associazione funzionò
bene per il governo e per gli Stationers. Gli Stationers
trassero profitto dal loro monopolio e il governo esercitò
il controllo sulla diffusione delle informazioni tramite
gli Stationers. Tuttavia, verso la fine del
diciassettesimo secolo, a causa di maggiori cambiamenti
politici, il governo allentò le sue politiche censorie e
fece terminare il monopolio degli Stationers. Ciò
significava che la stampa sarebbe dovuta ritornare al
proprio stato anarchico precedente e naturalmente fu una
minaccia economica ai membri della corporazione, abituati
come erano ad avere la licenza esclusiva di produrre
libri. La dissoluzione del monopolio avrebbe potuto essere
buona per autori a lungo soppressi e stampatori
indipendenti, ma essa suonava come un disastro per gli
Stationers, ed essi rapidamente elaborarono una strategia
per mantenere la loro posizione nel nuovo clima politico
liberale.
Gli Stationers basarono la loro strategia su un
riconoscimento decisivo, che è rimasto da allora alle
aziende editoriali fino a oggi: gli autori non hanno i
mezzi per distribuire le proprie opere. Scrivere un libro
richiede solo penna, carta e tempo. Ma la distribuzione di
un libro richiede presse per la stampa, reti di trasporto
ed investimenti iniziali in materiali e macchine
compositrici. Così, ragionarono gli Stationers, le
persone che scrivono avranno sempre bisogno della
collaborazione di un editore per rendere il loro lavoro
disponibile alla generalità. La loro strategia usò
questo fatto fino al massimo vantaggio. Essi andarono in
Parlamento e fornirono l'argomento, basato sulla
storiella-di- allora, che gli autori avevano un inerente
diritto di proprietà naturale su ciò che scrivevano e
che inoltre questa proprietà poteva essere trasferita ad
altre parti per contratto, come ogni altra forma di
proprietà.
Il loro argomento riuscì a convincere il Parlamento. Gli
Stationers avevano fatto in modo da evitare l'odio verso
la censura, poiché i nuovi diritti di riproduzione
avrebbero avuto origine dall'autore, ma essi sapevano che
gli autori avrebbero avuto ben poche possibilità di
scelta oltre che firmare per trasferire questi diritti ad
un editore per la pubblicazione. Ci fu qualche disputa
giudiziaria e politica sui dettagli, ma alla fine tutte e
due le metà dell'argomento degli Stationers sopravvissero
essenzialmente intatte e diventarono parte della statutory
law inglese. Il primo copyright riconoscibilmente moderno,
lo Statute of Anne (Statuto di Anna) fu approvato nel
1710.
Lo Statuto di Anna viene spesso richiamato dai campioni
del copyright come il momento in cui gli autori
ricevettero finalmente la protezione che essi meritavano
da tempo. Ancora oggi esso viene referenziato, sia in
argomentazioni legali che in stampati dell'industria
editoriale. Ma interpretarlo come una vittoria degli
autori contrasta sia con il comune buon senso che con i
fatti storici [3]. Gli autori, che non avevano avuto il
copyright, non vedevano nessuna ragione di chiedere
improvvisamente il potere piuttosto paradossale di evitare
la diffusione delle proprie opere, e non lo fecero. Le
sole persone preoccupate della dissoluzione del monopolio
degli Stationers erano gli Stationer stessi, e lo Statuto
di Anna fu il diretto risultato della loro campagna di
lobbying.
Nelle memorabili parole del contemporaneo Lord Camden, gli
Stationers "...vennero in Parlamento come
supplicanti, con le lacrime agli occhi, infelici e
sfiduciati; essi portarono con sé mogli e bambini per
provocare compassione e indurre il Parlamento a garantire
loro una sicurezza legale."[4] Per rendere più
appetibili i loro argomenti, essi avevano proposto che il
copyright fosse originato dall'autore, come una forma di
proprietà che poteva essere venduta a chiunque -
aspettandosi correttamente che il diritto sarebbe stato
venduto quasi sempre ad un editore.
Questa proposta fu un'astuta mossa tattica, perché il
Parlamento voleva impedire il ristabilimento di un
monopolio centralizzato nel commercio dei libri, con la
sua potenzialità di un ripristino della censura da parte
della Corona. Benjamin Kaplan, professore di legge emerito
all'università di Harvard e rispettato studioso del
copyright, descrive brevemente la posizione degli
Stationers:
... gli Stationers fecero il caso che essi non potessero
produrre quei fragili prodotti detti libri e così
incoraggiare gli uomini istruiti a scriverli, senza una
protezione contro la pirateria... C'è un apparente
tracciato dei diritti verso una fonte ultima nel fatto
della proprietà intellettuale, ma prima di dare a ciò
grande importanza dobbiamo osservare che, se la stampa
come commercio non fosse messa nuovamente nelle mani di
pochi monopolisti, -- se lo statuto venisse ad essere
effettivamente una specie di "patente
universale" -- un legislatore sarebbe condotto
naturalmente esprimersi in termini di diritti nei libri e
quindi di diritti iniziali negli autori. Un legislatore
sarebbe comunque consapevole che i diritti di solito
passerebbero immediatamente agli editori per assegnazione,
cioè dall'acquisto dei manoscritti come nel passato...
Penso sia più vicino alla verità dire che gli editori
videro il vantaggio tattico di proporre gli interessi
degli autori insieme ai propri e questa tattica produsse
un certo effetto sul tono dello statuto[5].
Lo statuto di Anne, preso nel contesto storico, è la
pistola fumante della legge sul copyright. In esso
possiamo vedere l'intero apparato del copyright moderno,
ma ancora in forma indistinta. C'è la nozione del
copyright come proprietà, come pure la proprietà intesa
realmente per gli editori, non per gli autori. C'è la
nozione della società che ne beneficia, incoraggiando la
gente a scrivere i libri, ma nessuna evidenza viene
offerta per mostrare che la gente non scriverebbe libri in
assenza copyright. La discussione degli Stationers fu
piuttosto che gli editori non potrebbero permettersi di
stampare libri senza una protezione dalla concorrenza e
che gli autori produrrebbero poche opere nuove senza
un'aspettativa di distribuzione. Questo [argomento] non
era del tutto in malafede; le corti ed il Parlamento non
sarebbero stati così favorevoli se effettivamente fosse
stato del tutto incoerente. Gli editori furono ora
efficacemente costretti a pagare gli autori in cambio dei
diritti esclusivi di stampa (sebbene in effetti gli
Stationers a volte avessero pagato gli autori anche prima,
semplicemente per garantirsi il completamento e la
consegna di un'opera). Gli autori che riuscirono a vendere
questo nuovo diritto agli stampatori non ebbero
particolari motivi di lamentarsi -- e naturalmente, non si
sente parlare molto degli autori sfavoriti. Il
consolidamento del copyright dell'autore probabilmente
contribuì al declino del patronato come fonte di reddito
per gli scrittori[6] e ad alcuni autori consentì perfino,
benché sempre una piccola minoranza, di sostenersi
solamente dai diritti d'autore che i loro editori
dividevano con loro.
Ma la testimonianza storica globale è chiara: il
copyright fu progettato dai distributori per sovvenzionare
se stessi, non i creatori.
Questo è il segreto che l'odierna lobby del copyright non
ha mai il coraggio di dire ad alta voce, perché una volta
che venisse ammesso, diventerebbe chiaro in modo
imbarazzante il vero scopo della successiva legislazione
sul copyright. Lo statuto di Anne fu semplicemente
l'inizio.
Assegnando la premessa che il copyright debba esistere, il
governo inglese si trovò sotto pressione per estendere
sempre di più i termini del copyright. Nella lunga saga
legale che seguì, non è importante la particolare
sequenza di leggi e verdetti, ma l'identità dei
querelanti: essi erano proprio il tipo di interesse
affaristico stabile e consolidato, capace di sostenere la
controversia e di fare pressioni per decenni - erano cioè
editori, non autori. Avevano proposto il copyright
dell'autore per interesse economico e solo dopo che la
stampella di un monopolio basato sulla censura era stato
tolto a loro. Quando fu evidente che la tattica
funzionava, essi spinsero per rinforzare il copyright.
Il modello è questo ancora oggi. Ogni volta che il
congresso degli USA estende i termini o la portata del
copyright, ciò è il risultato di pressioni
dell'industria editoriale. A volte, i gruppi di pressione
metteranno in mostra un autore o un musicista superstar,
una faccia umana per quello che è essenzialmente uno
sforzo dell'industria, ma è sempre molto chiaro cosa sta
accadendo in realtà. Tutto ciò che dovete fare è
guardare chi sta pagando le fatture degli avvocati e dei
gruppi di pressione, il cui nome compare nei registri
delle sentenze della corte - gli editori.
Tuttavia la campagna secolare dell'industria per una forte
legge sul copyright non è semplicemente avidità
riflessa. È una naturale risposta economica alle
circostanze tecnologiche. L'effetto del torchio
tipografico e successivamente della tecnologia di
registrazione analogica del suono, avrebbe reso le opere
dell'ingegno inseparabili dai mezzi per la loro
distribuzione. Gli autori avevano bisogno degli editori
come l'elettricità ha bisogno dei fili. L'unico metodo
economicamente praticabile per raggiungere i lettori (o
gli ascoltatori) era la stampa di massa: produrre insieme
migliaia di copie identiche, poi spedirle fisicamente ai
vari punti di distribuzione. Naturalmente ogni editore,
prima di accettare un tale investimento, preferisce
comprare o prendere in leasing il copyright dall'autore,
proprio come naturalmente incita il governo ad estensioni
più forti possibili del copyright, il meglio per
proteggere il suo investimento.
In questo non c'è niente di intrinsecamente strumentale;
è pura economia. Dal punto di vista degli affari, il
funzionamento della stampa è un progetto rischioso e
scoraggiante. Comporta alti costi iniziali del supporto
fisico (sia esso la polpa dell'albero, nastro magnetico,
dischi in vinile, o dischi ottici incisi), oltre a
macchinari complessi e costosi per stampare il contenuto
sul supporto. Inoltre c'è l'investimento occulto del
controllo della copia matrice: poiché un master difettoso
può ridurre il valore di tutto il lavoro, gli editori e
gli autori incontrano considerevole difficoltà per
generare una versione del lavoro pulita e priva di errori
prima della stampa. Qui c'è poco spazio per un processo
incrementale o evolutivo; il lavoro deve essere reso quasi
perfetto prima che il pubblico possa vederlo. Se degli
errori sono trascurati, dovranno essere tollerati nel
prodotto finito, almeno fino al riavvio del processo per
la ristampa successiva. L'editore deve anche negoziare i
prezzi ed allineare i percorsi di distribuzione, che è
non soltanto un problema di contabilità, ma di spese
fisiche, di camion e treni e contenitori per trasporto.
Infine, come se tutto questo non fosse abbastanza,
l'editore è costretto a spendere ulteriore denaro per il
marketing e la pubblicità, per avere una migliore
possibilità di recuperare almeno tutte le spese.
Quando ci si rende conto che tutto questo deve accadere
prima che l'opera generi un penny di reddito, è poco
sorprendente che gli editori sostengano fortemente il
copyright. In termini economici, l'investimento iniziale
degli editori in ogni opera individuale - cioè il loro
rischio - è più grande di quello dell'autore. Gli autori
in sé non avrebbero desiderio intrinseco di controllare
la copiatura, ma gli editori lo hanno. Naturalmente gli
autori hanno tanto più bisogno degli editori in un mondo
si è riempito di reparti di marketing sostenuti dalle
royalty degli editori. La concentrazione dei redditi di
distribuzione provoca inevitabilmente la logica familiare
di una corsa agli armamenti.
L'arrivo di Internet ha profondamente cambiato questa
equazione. Ormai é divenuto un cliché affermare, come in
realtà è, che Internet ha portato uno sviluppo
rivoluzionario così come lo è stato l'arrivo della
stampa. Ma internet è rivoluzionaria in modo diverso. La
stampa rese possibile la produzione di molteplici copie a
partire da un libro, ma tali copie dovevano essere ancora
fisicamente trasportate dalla tipografia alle mani dei
lettori. Dal punto di vista fisico, il libro non era solo
il modo con il quale accedere al suo contenuto, ma
costituiva anche il mezzo per recapitare il suo contenuto
ai consumatori. Le spese totali sostenute degli editori
erano quindi praticamente proporzionali al numero di copie
distribuite. In tale situazione è ragionevole chiedere
che ciascun consumatore contribuisca ad una parte dei
costi di distribuzione, tenuto conto che dopo tutto
ciascun utente è più o meno responsabile dei costi che
hanno fatto pervenire il libro nelle sue mani. Se il libro
(o il disco) è nelle sue mani, deve averlo preso da
qualche parte e qualcuno deve aver speso dei soldi per
farlo arrivare li. Dividete queste spese per il numero di
copie, aggiungete un certo margine di profitto e arrivate
in linea di massima al prezzo del libro.
Oggi, però, il mezzo su cui vengono distribuiti i
contenuti può essere del tutto diverso da quello
utilizzato al momento della fruizione ultima del
contenuto. I dati possono essere trasmessi su cavo a costo
essenzialmente zero e l'utente, che si trova dall'altra
parte del cavo, può stampare la copia di un'opera a
proprie spese e con la qualità che può permettersi[7].
Ne consegue che la pratica di applicare un ricarico fisso
su ogni copia, indipendentemente dal numero di copie
distribuite, ha poco senso, in quanto il costo di
produzione e distribuzione di un lavoro è essenzialmente
fisso e non più collegato al numero di copie. Dal punto
di vista della società, ogni dollaro in più speso oltre
a quelli necessari (se ce ne sono) per far emergere un
lavoro è in primo luogo uno spreco e costituisce un
impedimento alla capacità del lavoro di diffondersi in
base ai propri meriti.
Internet ha fatto qualcosa che la compagnia degli
Stationers non aveva previsto: ha reso gli argomenti della
loro discussione un'ipotesi verificabile. Gli autori
continuerebbero a creare, senza una struttura
centralizzata che distribuisca le loro opere? Una
conoscenza anche minima di Internet è sufficiente per
fornire la risposta: ovviamente si, lo stanno già
facendo. Gli utenti dei computer scaricano comodamente
musica e realizzano CD a casa e, lentamente ma
inevitabilmente, i musicisti immettono comodamente in rete
nuovi brani "free" pronti per essere
scaricati[8]. Anche alcuni lavori brevi come romanzi e non
solo sono disponibili on-line.
Sebbene sia vero che la stampa e la rilegatura su
richiesta di interi libri siano ancora rare, questo
avviene solo perché le macchine necessarie sono ancora
abbastanza costose. Comunque le apparecchiature diventano
sempre più economiche ed è solo una questione di tempo
prima che la copisteria sotto casa le abbia a
disposizione. Da un punto di vista della distribuzione non
vi è differenza tra testo e musica e appena la tecnologia
per la stampa e la rilegatura diverrà più economica, gli
autori di libri vedranno molto più chiaramente che essi
hanno le stesse alternative di cui dispongono
nell'immediato i musicisti, e il risultato sarà lo
stesso: sempre più materiale disponibile senza
restrizioni, a partire dalla scelta dell'autore.
Alcuni possono argomentare che gli autori sono differenti
e che essi sono molto più dipendenti dal copyright di
quanto lo siano i musicisti. Dopo tutto un musicista fa
dei concerti e può quindi guadagnare indirettamente da
una distribuzione libera dei propri brani - la maggiore
diffusione delle proprie canzoni permette di effettuare
maggiori concerti. Gli autori però non fanno
rappresentazioni; raggiungono il loro pubblico attraverso
le opere e non di persona. Se ora volessero trovare dei
modi per auto- finanziarsi senza imporre una scarsità di
risorse ai loro lavori, potrebbero farlo?
Immaginate lo scenario più semplice: entrate nella
libreria di quartiere e fornite ad un impiegato
l'indirizzo web del libro che state cercando. Un paio di
minuti dopo, l'impiegato ritorna con una copia fresca del
libro scaricata da internet, appena stampata e rilegata,
ed annuncia il prezzo: "Sono otto dollari. Vuole
aggiungere la donazione di un dollaro per l'autore?"
Accettate? Ovviamente potete dire si o dire no, ma si deve
notare che quando i musei propongono una donazione
volontaria la gente di solito paga. Una cosa del tutto
simile potrebbe quindi accadere nella libreria. Molte
persone sono contente di pagare un piccolo extra su una
spesa abbastanza grande se hanno tirato fuori il
portafogli e pensano che sia per una buona causa. Quando
le persone rinunciano a fare una piccola donazione
volontaria per una causa in cui credono, è più spesso a
causa di inconvenienti (scrivere un assegno, spedirlo,
ecc) che a causa dei soldi. Ma se anche solo la metà, o
meno, di tutti i lettori facesse tale donazione, gli
autori guadagnerebbero tranquillamente più di quanto
guadagnano con il sistema tradizionale delle royalty ed
avrebbero inoltre il piacere di divenire finalmente gli
alleati dei lettori e non i loro nemici.
Ovviamente questo non è il solo sistema possibile, anzi
può facilmente coesistere con altri sistemi. Quelli che
non sono convinti dal meccanismo della donazione
volontaria, dovrebbero considerare un altro metodo: il
sistema di soglia di garanzia. Questo sistema è stato
ideato per risolvere il problema classico dei fondi
distribuiti, in cui ogni contribuente vuole essere
rassicurato del fatto che tutti i partecipanti al fondo
stiano contribuendo, prima di versare i propri soldi. Con
il sistema di soglia di garanzia, il promettente autore di
una nuova opera comunica in anticipo quanti soldi saranno
necessari per la realizzazione dell'opera; questi soldi
costituiscono la "soglia". Un'organizzazione
intermediaria, quindi, raccoglie le garanzie con diversi
importi, dal grande pubblico. Quando il totale delle
garanzie raggiunge la "soglia" (o eccede
rispetto alla "soglia" di una qualche
percentuale prefissata per tenere la contabilità e per
l'assunzione di rischio), l'intermediario stipula con
l'autore un contratto in cui vengono inserite le garanzie
raccolte. Solo in questo fase, quando ci sono i soldi per
raggiungere lo scopo desiderato, a ciascuno viene chiesto
il pagamento della quota di garanzia. L'intermediario
tiene impegnati i soldi, pagando l'autore secondo una
scaletta con esso stabilita nella fase di negoziazione del
contratto. Il resto dei soldi verrà pagato quando il
lavoro sarà completato e reso pubblicamente disponibile
non solo ai contribuenti del fondo ma in generale a
chiunque. Se l'autore non conclude il lavoro,
l'intermediario restituisce i soldi ai contribuenti del
fondo.
Il sistema di soglia garantita possiede alcune
caratteristiche interessanti, non riscontrabili nel
mercato monopolistico basato sul copyright. Il lavoro di
un autore risulta disponibile gratuitamente a chiunque in
tutto il mondo. E ancora, l'autore è stato pagato
abbastanza per produrre il lavoro: se avesse avuto bisogno
di più soldi avrebbe potuto chiederli e restare a vedere
se il mercato era disposto a finanziarlo. Quelli che hanno
scelto di aderire al fondo, hanno pagato ciò che hanno
ritenuto accettabile e niente di più. E infine, non
c'erano rischi per i contribuenti in quanto se la
"soglia" non fosse stata mai raggiunta nessuno
avrebbe pagato alcunché.
Naturalmente non tutti i metodi sono così piacevolmente
ispirati da nobili sentimenti. Un paio di anni fa la
famosa e affermata autrice Fay Weldon accettò soldi da
Bulgari per scrivere un romanzo in cui venivano descritti
e messi in evidenza i prodotti di Bulgari. Il libro fu
intitolato "The Bulgari Connection" ed era
originariamente pensato per una edizione limitata
distribuita per una funzione corporativa, ma la Weldon
avendo scritto il romanzo, pensò bene di consegnare il
romanzo al suo editore per una distribuzione generale.
Questo significa che in futuro dovremo esaminare tutte le
opere creative per individuare sponsorizzazioni nascoste
di eventuali corporazioni? Forse, ma non ci sarebbe niente
di nuovo - la messa a disposizione di un prodotto è stata
inventata nel tradizionale contesto del copyright ed è li
che è fiorita. Il copyright non è né la causa della
sponsorizzazione corporativa né il suo antidoto. Sarebbe
sorprendentemente fuori luogo il guardare all'industria
editoriale come una forza per la de-commercializzazione.
Questi sono alcuni esempi su come sostenere il lavoro
creativo senza il copyright. Ci sono molti altri
metodi[9]; ce n'erano molti anche prima che Internet
rendesse possibile il pagamento e l'acquisto diretto
on-line. Non importa se un dato artista usa questo o quel
metodo. La cosa importante è che con poca o nessuna
difficoltà che impedisca il pagamento di piccole somme,
gli autori trovino il modo per far si che tali pagamenti
possano avvenire sulla base delle loro esigenze. Gli
economisti amanti del mercato come la soluzione a
qualunque cosa, dovrebbero innamorarsi di queste
possibilità (ma, prevedibilmente, molti di essi non lo
sono, poiché odiano vedere qualcosa diventare privo di
proprietà).
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Per vedere qualche spiraglio del futuro può essere più
utile guardare non ai musicisti di buonsenso dediti al
guadagno, ma al software. Probabilmente oggi il fiorente
movimento del Software Libero è il miglior esempio di un
mondo che ha superato il copyright. Il Software Libero
(alcuni lo chiamano anche "Open Source" - codice
sorgente aperto) è figlio della mente di Richard Stallman,
un programmatore che ebbe l'idea di rilasciare il software
sotto un copyright deliberatamente invertito. Invece di
proibire la condivisione, la licenza software la permette
e l'incoraggia. Presto molti altri aderirono a quest'idea
e siccome essi riuscirono a condividere e modificare senza
limiti ognuno i programmi degli altri, produssero
rapidamente una gran quantità di codice funzionante.
Alcuni predissero che il successo iniziale si sarebbe
rapidamente appiattito, perché l'aumento di dimensioni e
di complessità del software richiedeva un'organizzazione
gerarchica e centralizzata per la manutenzione. Ma, invece
di affondare, il movimento del Software Libero è
cresciuto così rapidamente da sorprendere anche i suoi
partecipanti, e non mostra alcun segno di volersi fermare.
Oggi esso produce software le cui funzionalità competono
con quelle disponibili nel mercato proprietario. Il
software Libero è ampiamente usato da banche, aziende e
governi, come pure da utenti individuali di computer. Ci
sono più siti web basati sul web server libero Apache di
quanti siano (tutti insieme) i siti basati su tutti gli
altri web server. I sistemi operativi liberi sono ora il
segmento in sviluppo più rapido del mercato dei sistemi
operativi. Sebbene alcuni autori di software libero siano
pagati per il loro lavoro (tutto sommato, il loro servizio
ha fornito un beneficio a quelli che usano il software ed
alcuni degli utenti vogliono pagare per esso) gli altri
hanno offerto il loro tempo volontariamente. Ogni progetto
software ha le sue ragioni per esistere ed ogni
programmatore ha i suoi motivi per contribuire. Ma
l'effetto cumulativo è uno sfoggio diretto dell'intera
giustificazione del copyright: esiste una prospera comunità
di proprietà intellettuale che non applica il copyright,
inoltre essa raggiunge sostanzialmente gli stessi
risultati della controparte tradizionale (mainstream).
Secondo la tradizionale giustificazione del copyright, ciò
non sarebbe potuto succedere. Il software è
essenzialmente di dominio pubblico; il suo copyright serve
principalmente ad identificare l'autore originale e, in
alcuni casi, ad impedire che qualcun altro imponga una
licenza più restrittiva. L'autore ha abbandonato ogni
diritto esclusivo, tranne il diritto di essere
identificato come l'autore.
Essi sono volontariamente ritornati al mondo precedente
alla legge sul copyright: essi impongono che non ci siano
royalties e non hanno alcun controllo sulla distribuzione
e sulle modifiche del proprio lavoro. La licenza software
dà a chiunque il permesso automatico di usarlo e
redistribuirlo. Si possono dare ad altri delle copie senza
bisogno di informare o chiedere il permesso ad alcuno. Se
vuoi modificarlo, sei libero di farlo. Puoi anche
venderlo, sebbene sia naturalmente difficile ricaricare
molto, perché saresti in competizione con altri che
forniscono gli stessi beni senza alcun costo. Un modello
più comune è di incoraggiare la gente a scaricare
gratuitamente il software e vendere invece servizi, come
supporto tecnico, addestramento e personalizzazione.
Questi modelli non sono fantasie, essi sono la base per
affari proficui che esistono proprio adesso, pagando a
programmatori reali salari competitivi per lavorare su
software libero. Ma il punto non è che la gente è pagata
per farlo - alcuni sono pagati, ma molti altri non lo
sono, e comunque scrivono software. Il vero punto è che
ogni anno viene prodotta e mantenuta una tremenda quantità
di software libero, ad un ritmo che cresce rapidamente
anche rispetto agli standard dell'industria del software.
Se questo fenomeno fosse confinato al software, esso
sarebbe spiegabile come un'aberrazione - il software è
diverso, i programmatori sono sovrapagati e così via. Ma
non è solo il software; se guardate con attenzione ci
sono segni che ciò sta avvenendo dovunque. I musicisti
cominciano a rendere le loro canzoni disponibili per lo
scaricamento gratuito e la quantità di scritti
liberamente disponibili su Internet - a partire da opere
di consultazione e saggistica, ma comprendendo ora
narrativa e poesia - ha da lungo tempo superato il punto
di misurabilità. Il software non è fondamentalmente
diverso da queste altre forme di informazione. Esso può
essere trasmesso in forma digitale come i poemi, le
canzoni, i libri ed i film. Esso può essere copiato per
intero o in parte; può essere citato per l'uso in altre
opere; può essere modificato ed editato; può anche
essere satireggiato.
Nel software l'abbandono del copyright è avvenuto molto
prima, principalmente perché i programmatori sono stati
il primo gruppo ad avere accesso ad Internet, non perché
ci sia qualcosa di speciale nella natura del software.
Nelle altre aree i creatori stanno gradualmente
comprendendo che anch'essi possono diffondere le loro
opere, senza editori o catene di distribuzione
centralizzate, semplicemente consentendo la libertà di
copia. Ed essi stanno scegliendo in modo crescente di
farlo, perché hanno poco da perdere e perché questa è
la via più facile per trovare un uditorio che apprezzi.
Lontani dall'essere particolarmente dipendenti dalla legge
sul copyright, i creatori guadagnano il massimo quando
abbandonano il monopolio del copyright.
Già nei primi stadi di questi andamenti, sorge una
domanda ovvia. Se il copyright in realtà non serve a
stimolare il lavoro creativo, allora oggi quale scopo ha?
Perché è chiaro che, se il copyright non esistesse, noi
oggi non lo inventeremmo. Abbiamo appena finito di
costruire una gigantesca macchina per copiare (Internet)
che fa anche da dispositivo di comunicazione ed
incidentalmente rende conveniente il trasferimento di
piccole quantità di denaro tra le persone. La
condivisione è oggi la cosa più naturale del mondo.
L'idea che gli artisti siano in qualche modo preoccupati
da essa si dimostra falsa ogni giorno, dalle migliaia di
nuove opere che appaiono on-line, firmate e totalmente
riconosciute dai loro autori, eppure libere di essere
copiate. Se qualcuno volesse argomentare che presto la
creatività si seccherà se non istituiamo immediatamente
uno stretto sistema di controllo su chi può copiare cosa,
noi lo potremmo ragionevolmente guardare come malato.
Ancora, in linguaggio leggermente più diplomatico, questo
essenzialmente è l'argomento usato dalla lobby del
copyright quando preme per leggi sempre più dure.
Qui non è in gioco la creatività e nei suoi momenti più
onesti l'industria editoriale lo ammette, anche se
implicitamente. Sebbene i leader delle industrie facciano,
per relazioni pubbliche, dichiarazioni simboliche sulla
necessità di guadagnarsi da vivere dei poveri artisti, le
loro dichiarazioni più dettagliate e pressanti riguardano
di solito gli effetti del copyright sul business. Larry
Kenswil, dello Universal Music Group, la più grande
azienda discografica del mondo, citato nel New York Times
del 5 gennaio 2003 in un articolo sugli schemi di
protezione digitale anticopia, diceva "Voi non
comprate musica, voi comprate una chiave. Questo è ciò
che fa la gestione digitale dei diritti: consente dei
modelli di business."
E' difficile immaginare una dichiarazione più sintetica
del credo dell'industria. Avrebbe potuto dire allo stesso
modo: "Questo è ciò che fa il copyright: consente
dei modelli di business."
Sfortunatamente, non tutta la propaganda prodotta
dall'industria è lineare ed onesta come le parole di
Kenswil. La Recording Industry Association of America, per
esempio, spiega il copyright in questo modo, sul suo sito http://www.riaa.org
Non c'è bisogno di essere un avvocato per fare il
musicista, ma bisogna conoscere un termine legale -
copyright. Questo termine interessa intensamente tutti gli
artisti creativi - poeti, pittori, romanzieri, ballerini,
registi, attori, musicisti e compositori.
Per tutti gli artisti "copyright" è più di un
termine della legge sulla proprietà intellettuale, che
proibisce la duplicazione, esecuzione o distribuzione non
autorizzate di un lavoro creativo. Per essi il termine
"copyright" significa la possibilità di
affinare la propria arte, sperimentare, creare e
prosperare. E' un diritto vitale e gli artisti hanno
combattuto nei secoli per mantenere questo diritto;
artisti come John Milton, William Hogarth, Mark Twain e
Charles Dickens. Twain andò in Inghilterra per proteggere
i suoi diritti e Dickens venne in America per fare la
stessa cosa.
La riconoscete? E' direttamente una pagina dal manuale
degli Stationers - una ripetizione senza maschera del mito
del copyright, completata con riferimenti a singoli
autori, pensati per stimolare il nostro supporto agli
artisti che combattono coraggiosamente per la loro
integrità artistica. A quanto sembra, per quello che
riguarda la RIAA, tutti gli artisti che, nel corso della
storia, riuscirono bene senza copyright non sono inclusi
tra "tutti gli artisti creativi". I commenti del
professor Patterson riguardo al simile uso che fecero gli
Stationers del diritto d'autore come una falsa traccia
davanti al Parlamento inglese del sedicesimo secolo, sono
applicabili nello stesso modo oggi:
"Essi [gli Stationers] lo fecero con argomenti intesi
a suscitare simpatia per l'autore (ignorando
convenientemente il loro ruolo nel creare la misera
condizione dell'autore che essi piangevano) ed evitando
logica e razionalità nel parlare."[10].
Il paragrafo successivo dell'introduzione della RIAA al
copyright è anche peggio. Esso è una breve - molto breve
- introduzione alle origini della legge sul copyright,
pesante nella cadenza dell'inevitabilità storica, ma
piuttosto slegato dai fatti:
L'intera legge sul copyright cominciò con lo
"Statuto di Anna", la prima legge al mondo sul
copyright, approvata dal Parlamento inglese nel 1709. Ma
il principio di proteggere i diritti degli artisti è
precedente. A prima vista potrebbe suonare come cruda
storia, ma poiché c'era da stabilire un precedente e
diritti da proteggere, molto tempo, molti sforzi e molto
denaro sono stati spesi in battaglie legali nel corso dei
secoli.
Questo riassunto soffocante è l'equivalente per il
copyright di "Cristoforo Colombo partì per l'America
per dimostrare che la terra era rotonda e si fece amico
con gli Indiani". Molto denaro è stato speso in
battaglie legali, ma la RIAA fa attenzione a non dire chi
l'ha speso, né ci sono ulteriori dettagli sul
"principio di proteggere i diritti degli
artisti" che si vorrebbe far credere che venga prima
di questi sviluppi.
Il resto della loro pagina continua con vena analoga, con
tante omissioni, errate caratterizzazioni e complete
bugie, che è difficile immaginare come possa averla
scritta uno che abbia fatto un minimo di ricerche. Essa
fondamentalmente è propaganda di basso livello, che
supporta la loro continua campagna per convincere il
pubblico che il copyright è fondamentale per la civiltà
quanto le leggi della termodinamica.
La RIAA indulge pure in una delle tattiche favorite della
moderna lobby del copyright: equiparare la copia illegale
al reato di plagio, che non è correlato ad essa ed è
molto più grave. Per esempio Hilary Rosen, ex capo della
RIAA, usava parlare nelle scuole e nelle università,
esortando gli studenti ad adottare il punto di vista
dell'industria riguardo alla proprietà intellettuale. Qui
c'è la sua descrizione di come lei presenta il caso:
Le analogie sono ciò che funziona meglio. Io chiedo a
loro: "Cosa avete fatto la settimana scorsa?"
Essi possono rispondere di aver scritto un saggio su
questo o quell'argomento. Così io domando loro "Così
avete scritto un saggio; avete preso un [voto] A? Vi
darebbe fastidio se qualcuno potesse prendere quel lavoro
e prendere anch'esso un A? Vi farebbe irritare?" Così
questo senso di investimento personale suona vero alle
persone.
Siccome normalmente le persone che duplicano CD non
sostituiscono il loro nome a quello dell'artista,
domandiamoci cosa sarebbe successo se Hilary Rosen avesse
chiesto: "Vi darebbe fastidio se qualcuno avesse
fatto una copia del vostro lavoro, in modo che altri
possano trarre beneficio da ciò che avete scritto e
vedere che voi avete preso un A?" Naturalmente gli
studenti avrebbero risposto: "No, non ci dà per
niente fastidio " il che non è ciò che Rosen voleva
udire.
La RIAA è estrema solo nella goffaggine della sua
propaganda. In sostanza il suo è lo stesso messaggio che
viene offerto dal resto dell'industria del copyright, che
mantiene un continuo rullio di tamburi tramite allarmi
sullo scambio di contenuti on-line, che priverebbe i
creatori della loro reputazione e della loro capacità di
lavorare, nonostante la superiore evidenza che, ad ogni
modo, il copyright non ha mai fornito loro molto di ciò
che serve a vivere e che essi continuerebbero felicemente
a creare senza copyright, se avessero a disposizione un
modo per distribuire la proprie opere. La campagna
suonerebbe dannosa o stupida se venisse descritta come io
ho fatto qui, ma siccome essi lottano per la propria
sopravvivenza, con grandi somme di denaro a disposizione
ed abili uffici di pubblicità, gli editori sono riusciti
a formare l'opinione pubblica in modo sorprendente.
Considerate questa povera donna, dall'International Herald
Tribune dell'11 settembre 2003, in un articolo sulle
condanne della RIAA per condivisione di file:
Una donna che aveva ricevuto una multa dalla RIAA disse
che si struggeva per spiegare al figlio di 13 anni perché
il file sharing fosse sbagliato. La madre, che evitò di
dire il proprio nome a causa della sua situazione legale,
aveva detto al figlio "Supponi di aver scritto una
canzone ed un famoso gruppo rock l'abbia suonata senza
pagarti". Il figlio aveva risposto "Non me ne
preoccuperei. La cosa non avrebbe importanza".
Concludeva la madre: "Essi sono in quella giovane età
in cui il denaro non ha importanza." La madre raccontò
di aver avuto risultati migliori quando aveva confrontato
il prendere canzoni di altri al copiare un compito di
scuola.
(Speriamo che il sensibile ragazzo di 13 anni riesca a
mantenere la sua testa, visto che intorno a lui sembra che
molti la stiano perdendo.)
Sfortunatamente la combinazione di un pubblico ancora ben
disposto e di tasche piene ha consentito all'industria del
copyright di esercitare la sua influenza a livello
legislativo. Il risultato è una tendenza deprimente:
barriere fisiche e legali che si rinforzano a vicenda e
che, pur visibilmente progettate per combattere le copie
illegali, hanno l'inevitabile effetto di interferire con
tutte le copie. Gli schemi di protezione digitale
anticopia sono continuamente rinforzati anche dallo stesso
hardware dei vostri computer, piuttosto che tramite un
programma malleabile e sostituibile. E le stesse aziende
proprietarie dei contenuti spesso producono l'hardware che
rende possibile la distribuzione. Avete comprato un
computer dalla Sony? Che ne pensate di un CD della
divisione musicale della Sony? E' la stessa azienda e la
sua mano sinistra sa cosa fa la mano destra. Con la
collaborazione del governo questa combinazione diventa
ancora più potente. Adesso negli USA abbiamo una legge -
la Digital Millennium Copyright Act - che rende illegale
aggirare uno schema di protezione digitale, come pure
produrre del software che aiuta gli altri ad aggirare uno
schema di protezione digitale. Sfortunatamente, siccome
molto hardware e software imprimono automaticamente tali
schemi su tutti i [supporti ] dei media che producono, la
legge strangola la copia autorizzata e molte altre attività
che, in base all'attuale legge sul copyright, ricadrebbero
altrimenti nella categoria del "fair use" (uso
personale).
È vitale capire come questi side effects (effetti
collaterali) non siano né incidenti, né conseguenze
inaspettate di uno sforzo benintenzionato per proteggere
gli artisti. Essi sono piuttosto parte integrante di una
strategia che, alla base, non ha niente a che vedere con
l'incoraggiamento alla creatività. Lo scopo di questo
sforzo industriale su tre rami - la campagna
pubblicitaria, la campagna legale e le
"protezioni" hardware - è semplicemente di
impedire all'esperimento Internet di giungere a
compimento. Ogni organizzazione che sia profondamente
coinvolta nei concetti della proprietà intellettuale e
del controllo delle copie non può essere contenta se
nasce un sistema che rende il copiare facile come un click
del mouse. Fino ad ogni limite possibile, queste
organizzazioni vorranno continuare il modello in cui si
paga per ogni copia (pay-per- copy), che abbiamo usato per
secoli, anche se le basi fisiche dell'informazione sono
tanto cambiate da renderlo obsoleto.
Sebbene la lobby del copyright riesca a far passare nuove
leggi ed anche a vincere alcuni casi in tribunale, queste
vittorie si basano su fondamenta che si stanno
disintegrando. Per quanto tempo il pubblico continuerà a
credere al mito del copyright, alla nozione che il
copyright fu inventato per rendere possibile il lavoro
creativo? Il mito è stato mantenibile così a lungo perché
aveva un granello di verità: sebbene il copyright non
fosse ispirato dagli autori e non fosse stato decretato
per proteggerli, esso aveva consentito la distribuzione
ampia di molte opere originali. Inoltre ci sono molti
editori (generalmente i più piccoli o di singoli
individui) che si comportano con un ammirevole senso di
servizio, aiutando le opere importanti ma non redditizie
con il denaro guadagnato dai forti venditori, a volte
anche perdendo denaro per stampare le cose che credono
significative. Ma siccome sono tutti legati all'economia
della stampa su larga scala, essi alla fine dipendono dal
copyright.
Non ci sarà una battaglia drammatica tra l'industria
editoriale ed il pubblico che copia, con un climax, un
epilogo ed un vincitore netto che si rialza dalla polvere.
Vedremo invece - stiamo già vedendo - l'emergere di due
flussi paralleli di lavoro creativo: il flusso
proprietario ed il flusso libero. Ogni giorno, sempre più
persone si aggiungono al flusso libero per loro volontà,
per tutti i generi di ragioni. Alcuni gradiscono il fatto
che non ci sono guardiani né barriere artificiali.
Un'opera può aver successo solo grazie ai suoi meriti ed
alla trasmissione orale (passa parola): sebbene niente
impedisca alle tecniche tradizionali del marketing di
essere usate nel flusso libero, ci sono meno soldi per
alimentarle, così qui stanno prendendo maggiore
importanza la trasmissione a voce e le reti di revisione
alla pari. Altri entrano nel flusso libero come
attraversamento dal proprietario, rilasciando una porzione
delle loro opere nel dominio libero per pubblicità o per
esperimento. Alcuni semplicemente capiscono di non avere
alcuna possibilità di successo nel mondo proprietario e
giudicano di poter rilasciare ciò che hanno nel pubblico.
Mano a mano che il flusso di materiale liberamente
disponibile diventa sempre più grande, il suo senso
d'inferiorità lentamente svanisce. Una volta, la
differenza tra un autore pubblicato ed uno non pubblicato
era che del primo si poteva avere un libro, ma non del
secondo. Essere pubblicati significava qualcosa. Aveva
un'aura di rispettabilità; implicava che qualcuno avesse
giudicato il vostro lavoro e dato un timbro di
approvazione istituzionale. Ma ora la differenza tra
pubblicato e non pubblicato si sta restringendo. Tra
breve, essere pubblicato significherà semplicemente che
da qualche parte un editore ha trovato il vostro lavoro
adeguato per la stampa su larga scala e possibilmente per
una campagna di marketing. Ciò può influenzare la
popolarità dell'opera, ma non influenzerà
fondamentalmente la sua disponibilità; ci saranno così
tante opere "non pubblicate" ma significative,
che l'assenza del pedigree della pubblicazione non verrà
più considerata automaticamente come un colpo contro un
autore. Sebbene il flusso libero non usi il copyright
tradizionale, esso usa una firma non ufficiale, il
"credito". Molto spesso le opere vengono copiate
e citate con attribuzione - ma i tentativi di rubare il
credito di solito vengono rilevati rapidamente e
dichiarati pubblicamente. Lo stesso meccanismo che rende
facile la copia rende molto difficoltoso il plagio. È
molto difficile usare segretamente l'opera di un altro
quando una ricerca con Google può trovare rapidamente
l'originale. Per esempio gli insegnanti fanno oggi di
routine ricerche di frasi rappresentative su Google,
quando sospettano che ci sia un plagio nei compiti degli
studenti.
Il flusso proprietario non può sopravvivere per sempre di
fronte ad una competizione di questo tipo. L'abolizione
della legge sul copyright è opzionale; qui la vera forza
sono i creatori che scelgono liberamente di rilasciare
senza restrizioni le loro opere per copie, perché farlo
è nel loro interesse. Ad un certo punto, sarà ovvio [il
fatto] che tutta la roba interessante sta andando nel
flusso libero e la gente semplicemente cesserà di
tuffarsi in quello proprietario. La legge sul copyright
potrà formalmente rimanere sui libri, ma in pratica essa
si dissolverà, atrofizzata dal disuso.
Oppure possiamo sederci e consentire a questo processo di
essere fermato, consentendo ai produttori di incorporare
delle "protezioni" hardware che interferiscono
con la nostra capacità di copiare legittimamente;
consentendo alla lobby del copyright di catturare i nostri
legislatori, fino al punto che dovremo guardarci in
continuazione dietro le spalle per la polizia del
copyright; ed esitando nell'usare il flusso libero al suo
pieno potenziale, perché ci hanno raccontato una falsa
storia su cos'è fondamentalmente il copyright.
Se scegliamo, possiamo avere un mondo dove concetti come
"fuori stampa" o "libro raro" siano
non solo obsolete, ma realmente senza senso. Possiamo
vivere in un giardino fertile e vibrante di opere che si
evolvono in continuazione, create da persone che volevano
profondamente renderle disponibili, non opere richieste da
una ricerca di mercato dell'editore. Le scuole non
sarebbero mai costrette a restare con libri di testo
obsoleti a causa del prezzo unitario imposto dagli editori
e il tuo computer ti consentirebbe di condividere sempre
le canzoni con i tuoi amici.
Un modo per arrivarci è di esaminare il mito del
copyright. Copiare non è furto e non è pirateria. E' ciò
che abbiamo fatto per millenni, fino all'invenzione del
copyright, e possiamo farlo di nuovo, se non ci
intralciamo da soli con gli antiquati residui di un
sistema di censura del sedicesimo secolo.
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Il contenuto di questo articolo viene rilasciato sotto
copyright libero e può essere ridistribuito, citato e
modificato senza restrizioni. Se si distribuisce una
versione modificata, si prega di correggere le
attribuzioni di conseguenza.
Note
[1] Questi eventi si possono leggere in ogni storia del
copyright. Una buona risorsa on-line sulle conseguenti
implicazioni legali è "Copyright And `The Exclusive
Right' Of Authors" (Il copyright e il "Diritto
Esclusivo" degli autori) http://www.lawsch.uga.edu/jipl/old/vol1/patterson.html
Journal of Intellectual Property, Vol. 1, No.1, Fall 1993,
del professor Lyman Ray Patterson, Pope Brock Professor di
Legge all'Università di Georgia, un noto studioso della
proprietà intellettuale. La sua descrizione delle origini
del copyright è concisa e rivelatrice: Nella storia anglo
americana del copyright l'evento che causò gli eventi
formanti del diciassettesimo e diciottesimo secolo fu la
Charter of the Stationers' Company (Carta della
Corporazione dei Librai) concessa nel 1556 da Filippo e
Maria .... La Carta diede agli Stationers il potere di
fare "ordinanze, condizioni e leggi" per la
gestione della "arte o mistero della scrittura",
come pure il potere di cercare stamperie e libri illegali
ed oggetti, insieme al potere di "requisire, prendere
o bruciare i predetti libri e oggetti, e qualsiasi di essi
stampato o da stampare in contrasto con la forma di ogni
statuto, atto o proclamazione ..." Il potere di
bruciare i libri offensivi fu un beneficio per il sovrano
(un'arma contro le pubblicazioni illegali) ed un vantaggio
per gli stationers (un'arma contro la concorrenza). La
possibilità di bruciare i libri mostra così la
motivazione reale della Carta, assicurare la fedeltà al
sovrano degli stationers come poliziotti della stampa in
un mondo incerto.
[2] "An Unhurried View of Copyright" (Una
visione serena del copyright), Benjamin Kaplan Columbia
University Press, 1967, pp. 4-5.
[3] Patterson, in [1], giunge al punto da dichiarare
"La caratterizzazione del copyright, così come
definito nello statuto, come una protezione dei diritti
dell'autore è una delle più grandi bufale della
storia."
[4] Kaplan, p. 6.
[5] Kaplan, pp. 7-9.
[6] "Five Hundred Years of Printing" pp.
218-230, S. H. Steinberg, Penguin Books, 1955, revised
1961
[7] Quando cominciai questo articolo, assunsi che ci
volessero alcuni anni per la realizzazione commerciale
tali sviluppi, ma avevo torto: il servizio di stampa su
richiesta newspaperkiosk.com già esiste ed è
funzionante.
[8] Vedi ad esempio http://www.mp3.com.
(Sebbene molte delle offerte sul sito siano nominalmente
soggette a copyright, è più che altro un riflesso
legale. Le tracce si intendono liberamente scaricabili,
ascoltabili e condivisibili - e questo è esattamente ciò
che fa la gente.)
[9] Per la descrizione di una tecnica di realizzazione ed
una rassegna delle altre, vedi "The Street Performer
Protocol and Digital Copyrights" di John Kelsey e
Bruce Schneier, all'indirizzo http://www.firstmonday.dk/issues/issue4_6/kelsey/.
[10] Patterson; vedi [1].
Documento originale: http://www.red-bean.com/kfogel/writings/copyright.html
Traduzione di Comedonchisciotte.net
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Anti-Copyright
"The question of copyright promises
to be the Vietnam of the Net".
Mitch Kapor
"If creativity is the field, copyright is the fence".
John Oswald
Copyright is in crisis. Photocopying, sound- and video-recording,
computers, and the net have all made it increasingly difficult for
the owners of copyright to enforce their rights. Levies or legal
penalties only patch the holes in an already leaky system. The flaw
lies not in the technology or in our society, but in the very notion
of copyright.
Intellectual "property" does not behave like material
property. If I give you a physical object I may no longer have use
or control of that thing, and may ask for something in return --
some payment or barter. But when I give you an idea, I lose nothing.
I can still use that idea as I wish. I need ask nothing in return.
The laws of exchange of matter being so very different from the
laws of exchange of information, any attempt to trade ideas with
material goods was destined for trouble sooner or later.
Not only do people hold on to ideas for material gain, they also
hang on to them for psychological gain. The ego likes to be
identified as the source of a particular insight or concept. But
what right has the ego to attach itself to something that was never
its in the first place?
We say "an idea came to me". I did not make it happen.
What I do is shape the ideas "that come" into forms --
usually words and images -- that satisfy me, and hopefully
communicate something to others. If I am to be paid for my work (which
I am not averse to), I should be paid for my time and energy, not
some dubious concept of intellectual property.
Thoughts are free. They should remain free, and be given freely.
And, following the universal law, the more we give the more we
shall receive.
* * *
N.B. This is not a license to rip
off. Let integrity prevail, and give credit where credit is due.
Liberated gratefully and
without permission from
Peter Russell

da http://anticopyright.com/
|
Note inedite su copyright e copyleft (2005)
di Wu Ming (*)
da carmillaonline.com del 6 Novembre 2005
1. I due corni del falso dilemma
2. Nascita del copyright e censura: contro il "mito delle origini" liberista
3. Google Print e affini: rete, gratuità e battaglie di retroguardia
1. I due corni del falso dilemma
Partiamo dalla fine: il copyleft si basa sulla necessità di coniugare due esigenze primarie, diremmo due condizioni irrinunciabili del convivere civile. Se smettiamo di lottare perché si soddisfino questi bisogni, smettiamo di auspicarci che il mondo migliori.
Non vi è dubbio che la cultura e i saperi debbano circolare il più liberamente possibile e l'accesso alle idee dev'essere facile e paritario, senza discriminazioni di censo, classe, nazionalità etc. Le "opere dell'ingegno" non sono soltanto prodotte dall'ingegno, devono a loro volta produrne, disseminare idee e concetti, concimare le menti, far nascere nuove piante del pensiero e dell'immaginazione. Questo è il primo caposaldo.
Il secondo è che il lavoro deve essere retribuito, compreso il lavoro dell'artista o del narratore. Chiunque ha il diritto di poter fare dell'arte e della narrazione il proprio mestiere, e ha il diritto di trarne sostentamento in un modo non lesivo della propria dignità. Ovviamente, siamo sempre nel campo delle condizioni auspicabili.
E' un atteggiamento conservatore pensare a queste due esigenze come ai corni di un dilemma insolubile. "La coperta è corta", dicono i difensori del copyright come lo abbiamo conosciuto. Libertà di copia, per costoro, può significare solo "pirateria", "furto", "plagio", e tanti saluti alla remunerazione dell'autore. Più l'opera circola gratis, meno copie vende, più soldi perde l'autore. Bizzarro sillogismo, a guardarlo da vicino.
La sequenza più logica sarebbe: l'opera circola gratis, il gradimento si trasforma in passaparola, ne traggono beneficio la celebrità e la reputazione dell'autore, quindi aumenta il suo spazio di manovra all'interno dell'industria culturale e non solo. E' un circolo virtuoso.
Un autore rinomato viene chiamato più spesso per presentazioni (a rimborso spese) e conferenze (pagate); viene interpellato dai media (gratis ma è tutto grasso che cola); gli si propongono docenze (pagate), consulenze (pagate), corsi di scrittura creativa (pagati); ha la possibilità di dettare agli editori condizioni più vantaggiose. Come può tutto questo... danneggiare le vendite dei suoi libri?
Parliamo ora del musicista/compositore: la musica circola, piace, intriga, intrattiene; chi l'ha scritta o chi la esegue ne ha un "ritorno d'immagine", e se sa come approfittarne viene chiamato a esibirsi più spesso e in più occasioni (pagato), ha la possibilità di incontrare più persone e quindi più committenti, se "si fa un nome" gli si propongono colonne sonore di film (pagate), serate come DJ (pagate), "sonorizzazioni" (pagate) di eventi, feste, mostre, sfilate; può addirittura trovarsi a dirigere (pagato) un festival, una rassegna annuale, cose del genere; se parliamo di artisti pop, mettiamoci anche i proventi del merchandising, come le T-shirt vendute via web o ai concerti...
Ecco il "dilemma" risolto nei fatti: si sono rispettate le esigenze dei lettori (che hanno avuto accesso a un'opera), degli autori/compositori (che ne hanno avuto ritorni e tornaconti) e di tutto l'indotto della cultura (editori, promoter, istituzioni etc.).
Cos'è successo? Perché il sillogismo è franato in modo tanto repentino sotto i colpi degli esempi? Perché tale sillogismo non mette in conto la complessità e la ricchezza delle reti e degli scambi, il passaparola incessante da un medium all'altro senza soluzione di continuità, le possibilità di diversificazione dell'offerta, il fatto che il "ritorno economico" per l'autore può percorrere diversi tragitti, alcuni (apparentemente) tortuosi.
E' a causa di questa incapacità di figurarsi la complessità che l'industria culturale (soprattutto quella discografica) ha perso i primi cinquanta treni dell'innovazione telematica, vivendo le nuove opportunità tecnologiche come minacce anziché come sfide, reagendo in modo scomposto a Napster e a tutto quello che è seguito. Cominciano a muoversi adesso, a cavalcare la tigre dopo che Steve Jobs ha dimostrato che si può fare, ma nel frattempo sono andati allo scontro con eserciti di potenziali clienti, la cui fiducia è persa per sempre. Anti-marketing.
Qual è l'ultima cosa che dovrebbe fare uno che produce e vende musica? Sicuramente criminalizzare chi li ascolta, trascinare in tribunale chi la ama etc. Ne valeva la pena? Secondo noi no.
Il "diritto d'autore" (attenzione, però, a non prendere sul serio quest'espressione semi-truffaldina!) come lo abbiamo conosciuto è ormai un freno al mercato.
Al contrario, il copyleft (che non è un movimento né una "ideologia", è semplicemente il vocabolo-ombrello per una serie di pratiche, istanze e licenze commerciali) incarna tutte le esigenze di riforma e adeguamento delle leggi sul copyright, in direzione di uno "sviluppo sostenibile". La "pirateria" è endemica, è irreprimibile, è marea montante portata dal vento dell'innovazione tecnologica.
Certo, i potentati dell'industria dell'intrattenimento possono continuare a far finta di niente, come la Casa Bianca ha fatto finta che non ci fossero effetto-serra, riscaldamento globale e sconvolgimenti climatici in corso. In entrambi i casi, chi nega la realtà verrà travolto. Ostìnati a non ratificare il Protocollo di Kyoto, ostìnati a non investire su fonti energetiche rinnovabili e alternative al petrolio, ostìnati a non voler risolvere i problemi ambientali, e prima o poi t'arriva tra capo e collo l'uragano Katrina (e ce n'est qu'un debut!).
2. Nascita del copyright e censura: contro il "mito delle origini" liberista
Torniamo all'ABC, mettendo in fila fatti noti e più volte ricordati. La storia del copyright comincia in Inghilterra nel XVI° secolo. La diffusione della stampa, la possibilità di distribuire tante copie di uno scritto, galvanizza chiunque abbia qualcosa da dire, soprattutto di politico. C'è un boom di pamphlet e giornali. La Corona teme la diffusione di idee sovversive e decide di affidare a qualcuno il controllo di quel che si stampa.
Nel 1556 nasce l'ordine degli Stationers [editori-tipografi-librai], casta professionale a cui viene concesso in esclusiva il "diritto di copia" [copy right], e quindi ha il monopolio delle tecnologie di stampa. Chiunque voglia stampare qualcosa deve passare al loro vaglio. Fino a quel momento era diverso, chiunque poteva farsi stampare copie di un'opera letteraria o teatrale, l'autore non si preoccupava perché non deteneva i diritti (che non esistevano), la cosa importante era che le opere circolassero e aumentassero la fama dell'autore, che in quel modo avrebbe intercettato i desideri di più committenti (mecenati privati, enti culturali di vario genere come teatri etc.) Da lì in poi, invece, un'opera potrà andare in stampa solo se otterrà il visto (in pratica, il placet della censura di stato) e sarà segnata sul registro ufficiale - attenzione a questo dettaglio! - a nome di uno stationer. Quest'ultimo diverrà il proprietario dell'opera nell'interesse dello stato.
Tutta la mitologia "liberista" sul copyright come diritto naturale, che nasce spontaneamente grazie alla crescita e alle dinamiche del mercato... sono tutte fandonie! L'origine remota del copyright sta nella censura preventiva e nella necessità di restringere l'accesso ai mezzi di produzione della cultura (leggi: restringere la circolazione delle idee).
Trascorre un secolo e mezzo e in questo periodo l'autorità della Corona subisce attacchi inauditi: la ribellione scozzese del 1638, la "Grande Rimostranza" parlamentare del 1641, lo scoppio della guerra civile nell'anno successivo, la rivoluzione di Cromwell con tanto di decapitazione del re... Alla fine degli anni cinquanta del XVII° secolo nel Paese torna la monarchia, ma la situazione rimane instabile e finalmente il Parlamento riesce a imporre alla Corona una Dichiarazione dei diritti. Da quel momento, la monarchia inglese sarà una "monarchia costituzionale".
Era necessario elencare questi eventi per far capire quanto si modifichi, in centocinquant'anni, l'atteggiamento nei confronti del sovrano, quindi anche della censura preventiva, e di conseguenza anche del potere degli stationers. Nei confronti di questi ultimi c'è sempre più insofferenza, così si decide di abolire il monopolio sul diritto di stampa.
Gli stationers verrebbero colpiti dove fa più male, cioè nel portafogli, quindi reagiscono con rabbia. Iniziano a fare pressioni perché l'imminente nuova legge riconosca i loro legittimi interessi e si volga comunque a loro vantaggio. Ecco la nuova argomentazione: il copyright appartiene all'autore; l'autore, però, non possiede macchine tipografiche; tali macchine le possiede lo stationer; ergo: l'autore deve comunque passare attraverso lo stationer. Come regolare tale "passaggio"? Semplice semplice: l'autore, nel proprio interesse a che l'opera venga stampata, cederà il copyright allo stationer per un periodo da stabilirsi.
Alla foce, la situazione resta più o meno invariata. A cambiare è la sorgente, il presupposto giuridico. La giustificazione ideologica non si basa più sulla censura, ma sulle necessità del mercato. Tutte le conseguenti mitologie sul diritto d'autore derivano dallo stratagemma argomentativo della lobby degli stationers: l'autore è di fatto costretto a cedere i diritti, ma è costretto... per il proprio bene.
I contraccolpi psicologici saranno devastanti, si arriverà a una variante della "Sindrome di Stoccolma" (l'amore del sequestrato per il proprio rapitore), autori che si mobilitano in difesa di uno statu quo che si fonda sul loro stare ai piedi del tavolo in attesa degli avanzi e di una carezza sulla testa, pat! pat! wuf!
La legge è il celebre "Statute of Anne" - capostipite di tutte le leggi e gli accordi internazionali sul diritto d'autore, fino alla Convenzione di Berna del 1971, al Digital Millennium Copyright Act, al Decreto Urbani et cetera - ed entra in vigore nel 1710. E' la prima definizione legale del copyright come si è continuato a intenderlo fino a oggi, o meglio, fino a stamattina, perché dopo mezzogiorno qualcuno ha cominciato ad avere dei dubbi.
I dubbi derivano dal fatto che oggi la "copia" è possibile a molte più persone, forse a quasi tutti.
Buona parte di noi ha in casa gli eredi domestici delle tecnologie di cui gli stationers avevano il monopolio. Per fare la copia di un'opera non è più necessario passare attraverso un ordine professionale. Gli eredi degli stationers vengono scalzati dalla rivoluzione microelettronica iniziata negli anni Settanta, dall'avvento del digitale, dalla "democratizzazione" dell'accesso al computing. Prima la fotocopiatrice e l'audiocassetta, poi il videoregistratore e il campionatore, poi il masterizzatore cd e il peer-to-peer, infine le memorie portatili tipo i-Pod... Come si può pensare che sia ancora valida la giustificazione ideologica del copyright, quella che diede forma allo Statute of Anne?
E' chiaro che va tutto rivisto, questo processo cambia faccia, cervello e cuore dell'intera industria culturale! Occorrono nuove definizioni dei diritti di chi crea, di chi produce, di chi mette a disposizione.
Se una "opera dell'ingegno" può giungere al pubblico senza la mediazione di un editore, di un discografico, di produttori televisivi o cinematografici, sono questi ultimi a dover interrogarsi su come proseguire, a dover inventarsi qualcosa, a dover ridefinire il proprio ruolo imprenditoriale e la propria ragione sociale. Cercare di mantenere con la minaccia della galera un monopolio che non ha più basi significa imbucarsi in un vicolo cieco, è un comportamento da Ancien Régime, da autocrazia zarista. Per fortuna qualcuno comincia a rendersene conto.
3. Google Print e affini: rete, gratuità e battaglie di retroguardia
Google Print, Creative Commons, copyleft etc. sono progetti e concetti diversi, ma in realtà vanno tutti nella stessa direzione, come vanno nella stessa direzione biblioteche e librerie. Nelle prime si accede al libro gratuitamente, nelle seconda lo si acquista, ma non c'è scontro tra le due opzioni: i paesi dove si vendono più libri sono anche quelli in cui più si frequentano le biblioteche. E' normale: più il libro circola, più lo si legge, più ritorno positivo c'è per l'editoria. Il download libero e gratuito di un testo e la sua "navigabilità" in stile Google Print hanno una finalità comune e ambiscono allo stesso risultato: entrambi vogliono rendere i prodotti culturali accessibili on line, e questo può favorire la vendita di libri.
La parola-chiave è proprio "biblioteche". si parla di una lunga tradizione di gratuità dell'accesso, soltanto di recente messa in discussione (e la battaglia è ancora in corso). Che si parli di biblioteche di mattoni o biblioteche di elettroni, sempre biblioteche sono. Se invece il download è a pagamento, allora si tratta di librerie, su per giù come quelle che siamo abituati a conoscere, non è difficile immaginare la modalità di prelievo del diritto d'autore, è una cosa piuttosto semplice. Detto questo: Seth Godin, uno dei più grandi filosofi del marketing, dice che se un e-book a pagamento viene comprato da tot persone, lo stesso e-book, reso gratuito, verrà scaricato da tot moltiplicato per quaranta.
L'informazione utile si ottiene invertendo il dato: su quaranta persone che scaricano un e-book gratis, ce n'è una disposta a comprarlo. La somma di quegli "uno su quaranta" corrisponde allo "zoccolo duro" dei lettori, quelli che comprano per primi, che fanno partire il passaparola. Sono i connettori, gli "evangelisti", i buzzers. Ogni mossa va fatta avendo in testa questo insieme di persone. Godin, poi, fa così: le nuove uscite (elettroniche e cartacee) sono a pagamento. Poco prima di una nuova pubblicazione, mette scaricabile gratis quella precedente. E' una strategia di lancio formidabile.
Gli editori che si oppongono a Google Print sono come quegli studios cinematografici che, venticinque anni fa, denunciarono i produttori di videoregistratori e videocassette, dicendo che la registrazione domestica violava il copyright. Il famoso caso "Universal contro Betamax".
La Universal arrivò fino alla Corte Suprema e perse... per fortuna sua. Negli anni a seguire, l'industria cinematografica ha realizzato la maggior parte dei suoi profitti non nelle sale ma grazie all'home video. E' sopravvissuta alla crisi delle sale grazie al VHS e poi al DVD. Se Universal e compagnia avessero vinto, a quest'ora sarebbero morti e sepolti. Ma hanno perso, e quindi si sono salvati.
Si potrebbe citare anche l'assurda battaglia dei discografici contro l'introduzione sul mercato delle musicassette, negli anni '70, preludio alla guerra senza quartiere contro il download, quando (iTunes lo ha dimostrato) bastava fornire agli utenti un canale di accesso legale a questa risorsa.
Anche questa degli editori è una battaglia suicida contro un'innovazione potenzialmente vantaggiosa. Per il loro bene, gli editori devono perdere. Vincendo, si assesterebbero una formidabile martellata nei cosiddetti.
*stralci di corrispondenza privata e risposte a interviste inedite in italiano.
www.wumingfoundation.com
rip. da http://linux-club.org/modules.php?name=News&file=article&sid=651
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COPYZERO: ALL RIGHTS DIGITALIZED
Che cos'è Copyzero?
Il diritto d'autore comprende il diritto morale d'autore (in primis, il diritto alla paternità intellettuale) e il diritto allo sfruttamento economico dell'opera. In molti casi, quest'ultimo diritto non si concretizza in alcun guadagno patrimoniale (se non per l'ente che ne garantisce la tutela a pagamento, la SIAE): la condizione di chi paga la SIAE e riceve compensi è ben diversa da quella di chi paga la SIAE e non riceve compensi. Molte persone, infatti, non sono inserite in un contesto di mercato e al tempo stesso non possono permettersi di versare o di versare frequentemente certe somme per la tutela del copyright (per il deposito di un'opera SIAE chiede al non iscritto 110 euro). Copyzero è un modo per tutelare il diritto d'autore ad un costo prossimo allo zero (0,36 euro), un modo per garantire a tutti, innanzitutto, un diritto della persona.
Come funziona Copyzero?
Lo strumento utilizzato da Copyzero si chiama firma elettronica qualificata. L'Italia si è posta all’avanguardia nell’uso legale della firma digitale, essendo il primo paese al mondo ad avere attribuito (fin dal 1997) piena validità giuridica ai documenti elettronici: il documento informatico, sottoscritto con firma digitale o con un altro tipo di firma elettronica qualificata, ha l'efficacia prevista dall'art. 2702 del codice civile (piena prova, fino a querela di falso).
Copyzero utilizza la firma digitale e la marca temporale per ottenere:
a) la prova della creazione di una determinata opera da parte di un determinato autore;
b) la prova dell'esistenza di un'opera ad una data certa.
Utilizzare Copyzero è semplice: basta apporre la firma digitale e la marca temporale (costa 0,36 euro) al documento informatico contenente l'opera dell'ingegno (letteraria, musicale, figurativa... ).
Va bene qualsiasi formato (txt, mp3, jpeg, mpeg... ).
Per firmare e marcare più opere contemporaneamente è sufficiente inserirle in un file archivio (esempio: file zip) ed apporre firma e marca su quest'ultimo: il costo dell'operazione sarà sempre 0,36 euro.
Il Movimento Costozero viene incontro a chi non possa o non voglia acquistare la smart card e il relativo lettore, con Copyzero on-line.
Secondo il DPCM 13 gennaio 2004, il documento informatico sottoscritto con firma digitale o altro tipo di firma elettronica avanzata basata su un certificato qualificato e generata mediante un dispositivo sicuro per la creazione di una firma non produce gli effetti di cui all'articolo 10, comma 3, del DPR 28 dicembre 2000, n. 445 (piena prova fino a querela di falso), se contiene macroistruzioni o codici eseguibili, tali da attivare funzionalità che possano modificare gli atti, i fatti o i dati nello stesso rappresentati. Consigliamo quindi di non includere i suddetti elementi (esempio: nel file archivio è preferibile inserire i sorgenti di un programma anziché l'eseguibile).
http://www.costozero.org/wai/copyzero.html
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Noi lottiamo e parliamo del conflitto .
Noi lottiamo e parliamo del conflitto, che è ovunque lo
stesso conflitto, ma lanciamo l'offensiva dal
nostro campo d'azione diretta. Dal nostro sapere pratico.
Solo in questo modo siamo parte del
movimento, non un movimento particolare, ma un avanzare
reale e globale, che abolisce lo stato di
cose presente.
Da quando - non più di tre secoli or sono - si è imposta
la credenza nella proprietˆ intellettuale, i
movimenti underground e "alternativi" e le
avanguardie più radicali l'hanno contestata in nome del
"plagio" creativo, dell'estetica del cut-up e
del "campionamento", della filosofia "do it yourself".
Procedendo a ritroso si va dall'hip-hop al punk al
proto-surrealista Lautreamont ("Il plagio è necessario.
Il progresso lo implica. Stringe da vicino la frase di un
autore, si serve delle sue espressioni, cancella
un'idea falsa, la sostituisce con l'idea giusta.").
Oggi quest'avanguardia è di massa.
Per questo e per l'autoproduzione clicca su
http://www.tmcrew.org/zk/uploads/materiali/audioresistance_appunti_sull_autoproduzione.pdf

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Michele
Boldrin, un italiano della Washington university di St Louis Missouri,
liberamente
http://www.micheleboldrin.com/
Against
Intellectual Monopoly
Michele Boldrin
http://www.micheleboldrin.com/research/aim.html
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7 febbraio 2007
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Ma il copyright può tutelare ancora il mercato?
di Roberto Perotti
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Per la Corte di cassazione scaricare da internet files protetti da
copyright non è reato se non c'è scopo di lucro. Benché si
riferisca in realtà a fatti coperti dalla normativa precedente alla
legge Urbani, questa sentenza è un'utile occasione per discutere di
proprietà intellettuale (copyright e brevetti) in un'economia
moderna. Sulla carta, la legge Urbani (che peraltro non verrà mai
applicata) è tra le più severe d'Europa. Ma ha ancora senso la
proprietà intellettuale? Lo dico come provocazione personale. So per
esempio che il direttore del Sole24 Ore, anche perché ha fatto
l'editore, la pensa in maniera opposta. Ma parliamone... Partiamo dal
caso più semplice, il copyright artistico, cioè la proibizione di
copiare, rivendere o utilizzare in pubblico un cd o un dvd, che di
fatto attribuisce al produttore un diritto di monopolio. L'argomento
usuale della Siae e della sua controparte americana, la Riaa, è che
questo monopolio permette agli autori di recuperare i costi fissi per
produrre una canzone.
In sua assenza, molte opere d'arte non verrebbero prodotte, e il mondo
sarebbe più povero culturalmente. Ma questo è falso.
Lo sostengono Michele Boldrin e David Levine ( due economisti della
Washington University di St. Louis)in un bellissimo libro disponibile
su internet, su cui gran parte di questo articolo è basato. Bach,
Mozart e Beethoven scrissero la loro musica quando il copyright non
esisteva e gli spartiti (i cd del XVIII secolo)venivano copiati
liberamente. E certamente Picasso avrebbe dipinto Guernica anche senza
royalties su ogni poster che riproduce il quadro.
Abolire il copyright non significa che un artista non possa vivere del
proprio lavoro. Se un cd di Madonna potesse essere copiato e rivenduto
liberamente, la prima copia costerebbe molto più del prezzo attuale,
perché porta con sé il diritto di rivendere il contenuto a qualsiasi
prezzo il mercato accetti. Le copie successive scenderebbero
progressivamente di prezzo, esattamente come oggi molti spendono 10
euro per guardare un film il weekend dell'uscita mentre potrebbero
vederlo a 3 euro dopo due mesi al cineforum.
I profitti degli autori sarebbero in ogni caso sufficienti per coprire
i costi iniziali e offrire una remunerazione aggiuntiva; verrebbero
però grandemente ridotte le enormi remunerazioni dei cantanti e
attori di punta. Si dice spesso che questi guadagni sono determinati
dal gradimento del pubblico, e quindi dal mercato. Vero, ma sta a noi
decidere se vogliamo che il mercato sia monopolistico o
concorrenziale. Per chi crede nel mercato, ma non riesce a
riconciliarsi con l'idea che un'artista possa guadagnare milioni per
cantare mentre si fa crocifiggere su una struttura di vetro pensando
di fare chi sa quale operazione culturale, oppure per fare monologhi
più o meno incoerenti alla televisione, la soluzione non è la
censura (che non funziona mai), ma l'abolizione del copyright.
Né il mondo sarebbe culturalmente più povero senza copyright, anzi.
Scomparirebbero le case discografiche, che oggi si accaparrano enormi
rendite e di fatto consentono l'accesso a pochi artisti. Molti più di
questi ultimi avrebbero quindi accesso al mercato, non essendovi più
bisogno della Siae che, di fatto,tiene alti i prezzi e i costi
proteggendo il monopolio di quei pochi che vengono distribuiti.
Dobbiamo però temere che gli artisti esteri diserteranno il mercato
italiano perché non protetto dal copyright? No, perché il prezzo che
potranno ottenere è sempre maggiore di zero.
Lo stesso discorso vale per gli altri casi di copyright artistico, cioè
per libri e film, e in genere per la proprietà intellettuale, inclusi
quindi i brevetti scientifici. Quasi tutte le industrie nuove non
avevano copyright nella fase iniziale e più innovativa. In decine di
settori tra i più innovativi (moda,banche d'investimento,open source
software) i costi fissi sono alti eppure non ci sono brevetti.
Si dice spesso che il brevetto consente la ricerca in farmaci con alti
costi di sviluppo e domanda limitata, e quindi beneficia tutto il
mondo. Ma i costi fissi sopportati dall'industria farmaceutica sono più
limitati di quanto si creda, e la domanda è elastica. Fino al 1978 in
Italia i brevetti farmaceutici erano proibiti, eppure la nostra
industria farmaceutica era composta di decine di aziende con una
reputazione mondiale di innovazione;sappiamo tutti cosa è successo
negli ultimi 30 anni.
Questi sono argomenti delicati, che richiedono un dibattito serio e
rigoroso. Per ora potremmo accontentarci di un passo più modesto ma
significativo. Se il ministro Bersani cerca già idee per la prossima
lenzuolata, eccone una: ministro, abolisca la Siae.
roberto.perotti@unibocconi.it
http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Tecnologia%20e%20Business/2007/02/copyright-tutela-mercato.shtml?uuid=b30732ba-b69c-11db-944c-00000e251029&DocRulesView=Libero
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Nei
tempi più gloriosi dell'arte, gli artisti si esprimevano imitando i
grandi artisti del passato, e imitando trovavano se stessi. Un capolavoro
era un'imitazione mal riuscita. (Eugenio Montale)
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Mueller-Maguhn profeta dell'anticopyright

PI - News
venerdì 24 novembre 2000
Roma - Con la discesa in campo, peraltro non sorprendente
visti i precedenti, di Andy Mueller-Maguhn, il fronte
dell'anti-copyright che sulla Rete ha trovato un terreno fertile per
crescere, si rafforza.
Un suo intervento noto da tempo con la complicità di Slashdot e
altri importanti snodi informativi sta ora facendo rapidamente il
giro della Rete in queste ore.
L'esponente del Chaos Computer Club tedesco nonché
membro eletto dell'ICANN, conosciuto per le sue posizioni "anti-estabilishment"
ed eletto dalla Rete all'ICANN proprio per questo, aveva scritto sul
quotidiano tedesco FAZ che "quello che gli avvocati definiscono
proprietà intellettuale è - come sa qualsiasi studente di Latino -
niente più che un furto ai danni del pubblico".
L'hacker ha spiegato: "Poiché noi, come cittadini della Rete, non
abbiamo alcuna intenzione di lasciare che questi ladri distruggano
il bene pubblico, abbiamo dovuto iniziare a correggere il tiro;
ognuno va per la sua strada e siamo tutti connessi dalla Rete: con
questo ambiente pubblico, con l'immaginario collettivo e con Eris,
la dea della Guerra, della discordia e della discussione... Intendo
mantenere l'ambiente pubblico libero da regole commerciali,
garantire la libera circolazione dell'informazione e dare ai bit il
loro luogo. Vogliamo giardini di dati senza fine, dove i bit possano
fiorire, fiorire e riprodurre. Questi sono gli aspetti culturali
della mia politica".
http://punto-informatico.it/9127/PI/News/mueller-maguhn-profeta-dell-anticopyright.aspx |
“Se d'un fondo di mille
tornature, un vicino n'usurpa una, il proprietario la può rivendicare,
come farebbe del fondo intero: se d'un poema di mille ottave uno ne
ristampa anche molte, in un articolo di giornale, o in un libro, e, se
occorre, col fine di criticarle; a nessuno, nemmeno all'autore
criticato, viene in mente di fargli carico d'aver violata una proprietà”
A scriverlo è “solo” Alessandro Manzoni , pur essendo egli intento a
difendere i suoi Promessi Sposi dalle ristampe illegali di Felice Le
Monier.
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