TRIBUNALE
      DI ANCONA
      SEZIONE
      DISTACCATA DI FABRIANO
      Il Giudice, letti gli
      atti del procedimento penale n. 30181/02 R.G. mod. 16, 1774/96-2 RGNR,
      relativo all’imputato Possanza Antonio
      Premesso
      in fatto che il predetto imputato era evocato in giudizio per rispondere
      del reato di cui all’art. 589 commi 1°,2° e 3° c.p. nonché
      dell’art. 186 commi 1° e 2° del Codice della Strada (fatti del
      16.2.96, in occasione di incidente stradale);
      Che
      questo Giudice chiedeva notizie circa lo stato mentale dell’imputato
      mediante la trasmissione di documentazione dalle strutture sanitarie
      pubbliche locali ;
      Che a
      seguito di ciò veniva acquisita documentazione da cui tra l’altro
      risultava
      -        
      che l’imputato era stato in cura presso il Centro di Salute
      Mentale di Fabriano , essendo stato seguito continuativamente dal 28.1.97
      al 2.12.98 , a seguito di diagnosi di “disturbo psicotico N.A.S.”
      insorto durante l’espletamento del servizio militare
      -        
      che alla data del 26.3.99 l’imputato risultava per i responsabili
      del servizio psichiatrico pubblico affetto da “Disturbo Borderline di
      Personalità”, quadro clinico caratterizzato da una modalità pervasiva
      di instabilità delle relazioni interpersonali , dell’immagine di sé e
      dell’umore e da una marcata impulsività” con “abusi saltuari di
      sostanze stupefacenti ed alcool e, in periodi di elevata esposizione allo
      stress, scompensi psicotici caratterizzati dal comparire di disturbi
      dell’ideazione di tipo paranoide”
      -        
      Che concorreva con il predetto quadro un disturbo post traumatico
      da stress , che poteva “aver contribuito a slatentizzare i tratti
      disfunzionali di personalità connessi al sottostante Disturbo di
      Personalità “
      -        
      Che una nota del 3.12.99 indicava una riaccentuazione dei sintomi
      in concomitanza ad (altro ) incidente stradale avvenuto nel luglio ‘99.
      -        
      Che era stato ricoverato presso il Servizio Psichiatrico di
      Diagnosi e Cura di Jesi   dal 13.9.99 al 16.9.99 , a seguito del
      quale aveva ricominciato ad assumere una terapia farmacologica a base di
      neurolettici ,ansiolitici e stabilizzanti dell’umore .
      -        
      Che successivamente era stato ricoverato presso la stessa struttura
      , inizialmente a livello volontario e poi con T.S.O., stante la sua
      assoluta mancanza di collaborazione
      -        
      Che successivamente era continuata la terapia farmacologica
      -        
      Che la certificazione datata 13.3.00 a firma di medico della AUSL %
      di Jesi dava conto di “un quadro clinico psicopatologico caratterizzato
      da una condizione persistente di depersonalizzazione e derealizzazione ,
      con frequenti episodi francamente psicotici”
      Considerato
      , in diritto ,che risulta dunque dalla predetta documentazione acquisita
      che l’imputato , nel periodo successivo al tragico incidente , era
      malato di mente . Risulta inoltre un quadro tale che imporrebbe di
      approfondire se - per la gravità della malattia segnalata non da
      consulenti di parte, ma da strutture pubbliche – la malattia mentale
      stessa non fosse presente al momento del fatto (anche se qui potrebbe
      venire in rilievo la nota controversia tra fattore scatenante , mera
      concausa della malattia mentale ovvero malattia mentale “autonomamente
      sviluppatasi”: ma per l’appunto ciò postulerebbe l’approfondimento
      peritale accennato ).
      Tale perizia ,in caso di
      esito della stessa nel senso dell’infermità di mente al momento del
      fatto , potrebbe essere risolutiva per escludere l’imputabilità .
      E tuttavia, prima di
      interrogarsi sull’opportunità o sulla necessità di una perizia
      psichiatrica, questo Giudice deve porsi il problema fondamentale di come
      utilizzare il concetto di malattia mentale rispetto al diritto positivo .
      E tale diritto positivo ,
      com’è noto , viene in rilievo , in primo luogo ,  il disposto
      degli artt. 85-87-88-90 c.p. (v. anche art. 220 2° comma c.p.p.) .
      L’indagine che deve
      effettuare questo Giudice dev’essere subito alleggerita dalle questioni
      più generali , che addirittura coinvolgono il modo d’essere di un
      sistema penale.
      In altre parole , per
      quello che qui interessa, non occorre in alcun modo occuparsi di tutte le
      questioni che attengono
      -        
      Alla pretesa duplicazione concettuale tra art. 42,1° comma ed art.
      88 c.p. , sostenuta da parte della dottrina
      -        
      Alla problematica relativa alla capacità di volere di cui agli
      artt. 85 ed 88 c.p. come “libero volere” , intendendosi con questo la
      capacità di agire “liberamente” il che comporta a sua volta il
      quesito se possa ,almeno in parte,  affermarsi che comunque  la
      norma sottenda il problema del “libero arbitrio” , il che è stato
      espressamente escluso nella Relazione al codice, non avendo voluto il
      legislatore prendere posizione sul punto ( affermando sostanzialmente che
      trattasi di problemi metagiuridici)  ma che parte della dottrina in
      qualche modo ripresenta in sede ermeneutica, non ritenendo che la capacità
      o l’imputabilità possa attenere ad altri che all’  “uomo
      libero”
      -        
      Alla problematica relativa alle finalità della pena (scuola
      classica, scuola positiva, nuova difesa sociale ecc. ecc.).
      Occorre invece prendere
      le mosse dalla costante giurisprudenza in materia, la quale ,
      sostanzialmente, e sia pure con qualche episodico precedente difforme, ha
      un orientamento pacifico nel ricondurre l’infermità di mente ad una
      “patologia” clinicamente accertata. Solitamente, ma non sempre , la
      giurisprudenza esclude dal novero delle “infermità” psichiche quelle
      che non si traducano nelle c.d. psicosi . Talvolta si assiste anche alla
      specificazione, apprezzata da parte della letteratura psichiatrica forense
      , che la malattia mentale deve essere stata causa specifica del reato e
      non mero stato generale del soggetto : è questa , sotto varie forme , la
      dottrina dell’incapacità di intendere e di volere come valore di
      malattia .
      Ricorrente è poi la
      distinzione tra psicosi vera e propria e c.d. nevrosi la quale non darebbe
      luogo a compromissione della capacità di intendere e di volere .
      Quasi sempre, inoltre ,
      v’è la sottolineatura circa la “base organica” della malattia
      rilevante ex art. 88 e 89 c.p. .
      Queste affermazioni si
      trovano nella copiosa giurisprudenza degli ultimi 50 anni talvolta
      affiancate talaltra, per così dire, “in ordine sparso “ , poiché
      viene colto ora l’uno ora l’altro aspetto ovvero perché empiricamente
      la giurisprudenza stessa cerca di risolvere gli stessi imbarazzi e
      contraddizioni della cultura psichiatrica .
      Su questi presupposti si
      attesta anche la più recente giurisprudenza .
      Si pone ora la questione
      di chi, in primo luogo , debba accertare la malattia mentale , in ipotesi
      penalmente rilevante . Il quesito sembrerebbe banale e pedestre , poiché
      la risposta obbligata è che l’incapacità viene accertata dal giudice
      sulla scorta delle risultanze processuali ed in primo luogo della perizia
      psichiatrica . Ma, per l’appunto, deve essere chiaro su quali premesse
      necessarie deve essere condotta la perizia psichiatrica . E allora , utile
      conclusioni può essere quella secondo la quale la perizia non potrà mai
      essere affidata ad un esperto nelle discipline psicologiche , perché la
      psicologia si occupa delle condotte mentali in generale, mentre la
      psichiatria si occupa della diagnosi (oltre che della cura) della malattia
      mentale .
      Inoltre, altra ulteriore
      conseguenza, anch’essa apparentemente banale, è che la psichiatria,
      come fonte di conoscenza umana, si pone esclusivamente come “scienza”. 
      Certamente il perito in
      genere , può essere versato nella più varie forme di conoscenza umana ,
      ivi comprese quelle a carattere artistico , ma la perizia psichiatrica non
      può che porsi secondo criteri scientifici .
      Una volta accertato che
      il giudice deve ricorrere alla scienza psichiatrica , altra utile
      specificazione è quella che attiene alla nozione stessa di scienza .
      Senza volersi in alcun
      modo addentrare, neppure per cenni , in questioni di filosofia delle
      scienza, non si può tuttavia trascurare che lo stesso soggetto di
      conoscenza media , tra i quali va annoverato lo stesso operatore del
      diritto, deve utilizzare le acquisizioni che attualmente valgono per
      quanto concerne la scienza .
      La nozione di scienza ha
      oggi abbandonato quel carattere di conoscenza assoluta ed universale alla
      quale ambiva nei secoli precedenti , almeno come fine raggiungibile .
      Si può anzi dire , forse
      esagerando , che uno dei postulati della scienza moderna è proprio
      l’impossibilità di raggiungere tale fine (e si esagererebbe proprio
      perché tale affermazione ha in sé un'eccessiva  assolutezza).
      Requisito essenziale
      della scienza moderna è che tutte le sue acquisizioni, per avere valore
      ,devono essere suscettibili di  riscontro , che può essere
      -        
      sia di natura assolutamente deduttiva : un matematico esegue una
      dimostrazione ponendo all’attenzione della comunità matematica 
      tutti i passaggi attraverso i quali essa si svolge , in maniera tale che
      la  comunità stessa possa discutere il valore e l’importanza del
      lavoro  . Assolutamente emblematica in tal senso , e mediaticamente
      importante perché giunto agli onori delle cronache giornalistiche è la
      dimostrazione del c.d. ultimo teorema di Fermat , vale a dire la
      dimostrazione che   xn+yn=zn
      non può dare alcuna soluzione in numeri interi per n maggiore di 2
      .Tale dimostrazione, oltre ad essere contenuta in oltre 200 pagine, aveva
      un errore nella sua prima formulazione , errore emendato proprio grazie
      alla segnalazione  dei matematici coinvolti nella verifica .
      -        
      sia di natura in tutto o in parte empirica : viene annunciato un
      nuovo e rivoluzionario  farmaco ovvero un nuovo protocollo medico
      nella cura del cancro ; la procedura di scoperta della molecola ovvero il
      protocollo di cura deve essere messo a disposizione della comunità
      scientifica per le verifiche sperimentali del caso ; altrimenti la
      scoperta del farmaco e la pretesa cura non hanno valore scientifico e ,
      poiché la medicina  e   la   farmacologia  
      non hanno valore di conoscenza se non sub specie di scienza, non hanno
      affatto valore .
      Certamente lo sforzo
      intellettuale,anche in tema di scienza,  procede anche per altre vie,
      non deduttive né induttive : una congettura si affaccia già pronta alla
      mente del ricercatore, e solo dopo se ne trova la giustificazione mediante
      il procedere razionale (la genesi di ciò è tuttora ignota) . Non può
      essere sottovalutato questo dato, ma esso non appartiene direttamente alla
      scienza . 
      La psichiatria deve porsi
      come scienza, essendo una branca della medicina, e come tale deve avere
      acquisizioni comunemente accettate dalla generalità degli esperti che
      praticano tale disciplina . L’affermazione potrebbe sembrare azzardata
      se si pone mente alle difficoltà in cui ancora si dibatte la psichiatria
      e le discussioni non ancora sopite circa l’eziologia di determinati
      fenomeni morbosi . Ma si tratta di difficoltà che appartengono in
      maggiore o minore misura a tutti i rami delle scienze applicate e non per
      questo i risultati cui pervengono le varie discipline non sono utilizzati
      in maniera fruttuosa nella vita di tutti i giorni . Essi possono ed anzi
      debbono essere utilizzati anche dal giurista . per quello che a noi
      interessa, rimane accertato, alla luce delle moderne acquisizioni
      1)     
      che la maggior parte delle malattie mentali hanno un’ accertata
      concomitante carenza o eccesso  di sostanze che fanno da mediatori
      chimici nelle interazioni neuronali
      2)     
      Che  spesso vi sono una serie di fattori concausali che
      possono prendere il nome di fattori scatenanti la malattia , senza i quali
      a) la malattia avrebbe potuto anche non manifestarsi b) o avrebbe potuto 
      manifestarsi con minore gravità c) o avrebbe potuto manifestarsi più
      tardivamente
      3)     
      Che le malattie mentali , in precedenza classificate unitariamente
      , abbisognano invece di importanti ed ulteriori specificazioni , per cui
      ,ad esempio , è corretto parlare di “spettro schizofrenico “ per dare
      conto di una serie di manifestazioni patologiche, anche molto diverse tra
      loro , riconducibili in quale maniera alla vecchia nozione di schizofrenia
      4)     
      Che la comorbidità tra malattie mentali è un fenomeno più
      accentuato di quanto in precedenza non si sospettasse (ad esempio,
      depressione e disturbo ossessivo compulsivo, depressione e disturbi da
      abuso di sostanze alcoliche, ecc.)
      5)     
      Che la “summa divisio” tra nevrosi e psicosi , ancora molto
      radicata nella terminologia comune, è praticamente abbandonata , mentre
      il termine nevrosi viene ancora utilizzato , soprattutto dalla psichiatria
      di scuola europea , ma semplicemente come termine equivalente a
      “sindrome” o “malattia” e senza quella valenza spiccatamente
      “psicodinamica” assegnatale soprattutto dalla psicanalisi
      6)     
      Che la gravità delle malattie mentali non si manifesta (solo) in
      termini di qualità , cioè in relazione ad un tipo di malattia, ma anche
      e soprattutto in relazione al tipo di intensità nell’ambito delle
      stessa malattia
      7)     
      Che per talune malattie la familiarità è molto accentuata, il che
      depone  per l’origine genetica della predisposizione a questo tipo
      di malattie  : appare corretto parlare di predisposizione in tutti i
      casi in cui la malattia dipenda dall’interazione di una serie di geni e
      non dal difetto di un solo gene, per cui il meccanismo complesso di
      interazione tra i geni coinvolti potrebbe essere influenzato in maniera più
      o meno positiva dagli stimoli ambientali
      8)     
      Che anche per le malattie di marcata origine genetica , non può
      darsi luogo ad alcun determinismo rozzamente inteso, per intendersi
      secondo i canoni  più rudi della scuola positiva di fine ottocento ,
      sia perché , come detto , la malattia sarebbe in ogni caso poligenica e
      sempre , in questa ipotesi ,diviene importante il contributo ambientale,
      sia perché, trattandosi di geni non tutti a carattere dominante, essi
      possono risentire del positivo influsso dell’allele, in ipotesi sano,
      portato dal genitore non affetto .
      9)     
      Che, infine, anche la dicotomia tra malattia “a base organica”
      o “biologica” e malattia “a base funzionale “ (o espressione
      equivalente ) , tende ad essere abbandonata . Tutte le recenti
      acquisizioni delle neuroscienze e della biomedicina danno conto di una
      complessità tale dell’organismo vivente che immaginare una mente ad un
      piano superiore ed un corpo confinato nel sottoscala è un’ipotesi del
      tutto infruttuosa . Nel campo della psichiatria , i progressi della
      misurazione sperimentale danno conto di eccesso o difetto di determinate
      sostanze proprio in correlazione a determinati stati patologici , per cui
      la mancanza di riscontro su base fisica di determinati disturbi psichici
      non può essere preso per fondare la dicotomia in parola .
      10)
      Che gli apporti della psicodinamica e della sociologia possono essere   
      senz’altro utilizzati  nella diagnosi e nella cura della malattia
      mentali , senza voler ridurre la psichiatria a mera dimensione biologica ,
      sia per le innegabili influenze dell’ambiente cui sopra si è fatto
      cenno, sia perché la complessità della materia, cui attualmente le
      neuroscienze non possono fornire tutte le risposte (né si sa se lo
      potranno fare in futuro) impongono una sorta di pragmatismo eclettico .
      Ovviamente per un’utile fruizione di tali contributi va abbandonato ogni
      dogmatismo da parte di tutti .
      Appare chiaro che oggi la
      scienza e la scienza in generale e la psichiatria in particolare non può
      essere la stessa del 1930 . Già questo comporterebbe un grave attacco
      alla validità  dei presupposti scientifici della normativa recata
      dagli artt. 85-88-89 c.p.
      Infatti, tanto per fare
      un esempio, la ricorrente distinzione operata dalla giurisprudenza tra
      malattia “in senso proprio “ ovvero malattia che ha base clinica , la
      quale comporta  l’infermità rilevante per escludere o diminuire la
      capacità di intendere e di volere, e    “i disturbi
      della personalità , le nevrosi ,ecc. “ riecheggia chiaramente, quando
      non   riprende pari  pari , la  terminologia  
      desueta di cui sopra, al punto 9. Qui, ovviamente, non  si 
      discute  se un soggetto con disturbo di personalità ,
      psichiatricamente classificabile come tale , debba o meno essere
      considerato incapace di intendere e di volere : il discorso , piuttosto ,è
      metodologico , nel senso che appare inesatto in partenza negare la
      qualifica di malattia mentale al disturbo di personalità .Non si capisce
      perché il disturbo di personalità interessi la psichiatria se non è
      rapportabile alla nozione di malattia mentale , se non usando la battuta
      rinvenibile in  un celebre manuale di psichiatria forense, vale a
      dire che gli psichiatri ,nella loro ansia classificatoria, debbono trovare
      un’etichetta per qualsiasi manifestazione comportamentale . Il che,
      comunque , rimane una battuta, ed anche poco al di sopra di quella secondo
      cui per lo psichiatra sono tutti pazzi, ed il primo pazzo è lui stesso
      .In realtà rimane l’assoluta difficoltà di conciliare le risultanze
      della scienza psichiatrica con asserzioni che si rinvengono nella
      giurisprudenza le quali danno come premesse scontate affermazioni che sono
      in contrasto con quanto sopra richiamato . Come mero esempio ricordiamo
      che Cass. Sez. I,n. 4029/92 stabilisce che la sindrome ansioso depressiva
      non è associabile ad alcuna entità nosologica  .Si rinviene, in
      tale affermazione , la traccia di una tripartizione tutt’ora in voga in
      dottrina ed in giurisprudenza, secondo la quale vi sarebbero tre distinti
      paradigmi circa i “modelli” di malattia mentale :
      -        
      Il paradigma medico o nosografico elaborato da Kraepelin verso
      l’inizio del novecento , secondo il quale il malato di mente sarebbe
      tale al sussistere di una specifica ed accertabile malattia fisica del
      sistema nervoso centrale . La disamina della malattia si svolge attraverso
      l’essenziale apporto di criteri di classificazione trasposti in
      “tavole nosografiche “, per cui il disturbo psichico è riconducibile
      ad una malattia mentale solo se nosograficamente inquadrabile
      -        
      Il paradigma psicologico , variamente definito , ma comunque
      improntato alla valorizzazione dell’universo interiore dell’individuo,
      della psicodinamica , del “vissuto”, ecc.
      -        
      Il paradigma sociologico , per cui la malattia di mente è
      riconducibile agli influssi dell’ambiente , o della società . Nelle sue
      teorizzazioni più estreme , il paradigma sfocia in quella che è stata
      chiamata “antipsichiatria”
      Il secondo ed il terzo
      paradigma, per le considerazioni sopra fatte, non appartengono al metodo
      scientifico . La loro validità va cercata in altri campi del conoscere .
      I loro eventuali apporti alla scienza psichiatrica sono di contenuto
      empirico , talora importanti ma non sistematici . Non possono venire in
      rilievo per essere confutati o confermati, perché sfuggono, per la loro
      stessa essenza al momento della verifica sperimentale (secondo l’ormai
      ben noto insegnamento di Popper).
      Il primo paradigma faceva
      certamente parte integrante della migliore scienza psichiatrica nel 1920 o
      nel 1930 , ma appartiene oggi alla storia della scienza .
      Attualmente la scienza
      psichiatrica pone le sue fondamenta su sistemi di classificazione a
      carattere pragmatico , rispetto ai quali sono fondamentali il Manuale c.d.
      DSM (diagnostic and statistic manual of mental disorder )nelle sue
      successive versioni, nonché la corrispondente versione a cura dell’OMS
      ICD.
      L’elemento saliente che
      caratterizza queste versioni è la costante revisione dei dati e delle
      classificazioni , che da un lato sottolinea il carattere ateorico delle
      stesse e dall’altro dà conto di un’elaborazione continua della
      materia in relazione alle acquisizione che via via vengono fatte .
      Accedendo a tali
      impostazioni , che non possono trovare alternative secondo la migliore
      scienza ed esperienza attuale , si comprende come il metodo nosografico
      era correttamente preso in esame quale presupposto dell’infermità
      psichica dal legislatore del 1930 (la relazione al Re vi fa indiretto ma
      chiaro accenno) , ma non può essere il presupposto scientifico attuale .
      Ma ammettendo che
      l’impianto complessivo costituito dagli artt. 85-88-89 , i quali
      poggiano , nell’applicazione ed interpretazione ,su premesse che 
      non si discostano molto dalle  premesse proprie di  una scienza
      psichiatrica vecchia di 70 anni ,possa in qualche modo superare le enormi
      riserve sulla sua ragionevolezza , il punto veramente dolente riguarda
      l’art. 90 c.p. , il quale può essere letto sia quale norma autonoma sia
      in lettura integrata con il disposto degli articoli riguardanti
      l’imputabilità . In altre parole , il lettore (e l’interprete) può
      scegliere di leggere  , in un primo tempo , gli artt. 85-88-89 c.p. ,
      e ne ricaverà che non è imputabile chi ,nel momento in cui ha commesso
      il fatto era, per infermità , in uno stato di mente tale da escludere la
      capacità di intendere e di volere .Di seguito  l’art. 90 c.p. può
      essere letto come una sorta di interpretazione autentica del disposto
      normativo di cui agli artt. 85-88-89 c.p. , nel senso che “gli stati
      emotivi o passionali “ non possono mai configurare quell’infermità
      che comporta una stato di mente tale da escludere (o anche solo di
      scemare) la capacità di intendere e di volere . In tal modo v’è un
      complesso normativo di unitaria lettura, quello degli artt. 85-88-89-90
      c.p. . Ma il lettore può anche intendere l’art. 90 c.p. come lo intende
      autorevole corrente dottrinale, e cioè che vi siano “stati emotivi o
      passionali “ che alterano il funzionamento della psiche in maniera
      patologica . E di fronte a questa possibilità , due sono le opzioni , cioè
      ammettere che vi sia uno stato “emotivo o passionale” che comporta
      l’infermità/incapacità ovvero che , in ogni caso, operi una fictio
      juris secondo la quale, seppure lo stato emotivo o passionale comporta
      un’incapacità di intendere o di volere , tale incapacità assoluta o
      parziale non è giuridicamente valutabile .
      La giurisprudenza di
      Cassazione può , grosso modo , suddividersi in 3 filoni
      -        
      V’è un gruppo di sentenze che affermano che gli stati emotivi o
      passionali non possono mai rilevare ai fini dell’incapacità di
      intendere o di volere ( sez. I, n.1319/67; n. 316/68 ; sez. II,n. 3707/76
      ; sez. III,n. 467/79 ; sez. I,n. 2897/83 ; sez. IV,n. 14358/90 ; sez. I,n.
      7523/91 ; n. 4029/92; n. 4954/93 ; 967/98 ,sez. VI , n. 7845/97 )
      -        
      V’è un gruppo di sentenze che affermano che gli stati emotivi o
      passionali possa anche comportare uno squilibrio psichico tale da poter
      dar luogo alla malattia mentale :di solito tale evenienza è vista come
      “eccezionale” (sez. I,n. 739/72 ; n. 4123/73 ; sez. III, n. 800/60 ;
      n. 2511/80 ; n. 9357/80 ; n. 6710/83 ; sez. V,n. 2123/85  ;sez. VI,n.
      2285/85 ;sez. I,n. 9084/87 ;sez. V,n. 8660/90 ; sez. I,n. 1347/91 )
      -        
      V’è infine un gruppo di sentenze che sembrano tentare una
      specificazione dello stato emotivo o passionale ,rilevante per escludere o
      diminuire la capacità di intendere e di volere , quale
      “manifestazione”di una vera e propria patologia     
      ( sez. sez. I, n. 10911/76 ; sez. III, n. 2439/64 ; sez. VI,n. 153/82;
      sez. I,n. 12429/94 ; n. 3170/95 ; n. 5885/97 )
       
      In realtà , leggendo i
      repertori e più ancora confrontando le motivazioni per esteso  , si
      ha talvolta la netta impressione che il contrasto sia meramente
      terminologico ed in realtà la giurisprudenza sia preoccupata di dare
      risposte adeguante al caso concreto , spesso di valenza delicata . In
      realtà si tratta di sforzi veramente ammirevoli ,sol che si consideri che
      la nozione di  “stati emotivi o passionali”  è uno
      strumento che seriamente non può avere alcuna utilizzazione . Il
      legislatore del 1930 utilizzava il vocabolario che poteva avere a
      disposizione che era quello di certa criminologia e  psichiatria di
      fine ottocento e di inizio del novecento. Certamente, a loro  volta 
      tali espressioni attingono più al romanzo popolare dell’ ottocento che
      ad un proficuo metodo scientifico  .
      Oggi ,comunque, nessun
      equivoco è più possibile . Si può certamente convenire con chi dice che
      in tali casi le espressioni più o meno infelici non devono essere
      preclusive all’utilizzazione delle situazioni sottostanti , che non
      possono che avere un carattere convenzionale . Il fatto è che la
      convenzione creatasi poggia su basi scientificamente scorrette  .
      Il giurista e
      l’operatore del diritto deve certamente farsi carico di questa
      discrepanza tra scienza come oggi va intesa e scienza come presupposta dal
      legislatore del 1930, dalla giurisprudenza e dalla dottrina : “questa
      Corte non intende certo escludere che il sindacato sulla costituzionalità
      delle leggi , vuoi per manifesta irragionevolezza vuoi sulla base di altri
      parametri desumibili dalla Costituzione , possa e debba essere compiuto
      anche quando la scelta legislativa si palesi in contrasto con quelli che
      ne dovrebbero essere i sicuri riferimenti scientifici o la forte
      rispondenza alla realtà delle situazioni che il legislatore ha inteso
      definire . Nella materia del diritto penale , anzi , questo specifico
      riscontro di costituzionalità deve essere compiuto con particolare
      rigore, per le conseguenze che ne discendono sia per la libertà dei
      singoli che per la tutela della collettività “ (Corte Cost. sentenza n.
      114 del 9-16/4/98 ) .
      Ritiene questo Giudice
      che la base scientifica su cui poggia la normativa del 1930 , nonché le
      elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali pressoché dominanti , sia
      “incontrovertibilmente erronea” ovvero “raggiunga un tale livello di
      indeterminatezza da non consentire in alcun modo un’interpretazione ed
      una applicazione razionali da parte del giudice “ (per usare le
      espressioni della decisione appena richiamata).
      D’altro canto , che le
      acquisizioni della scienza debbano imporre una rivisitazione degli
      istituti giuridici appare ugualmente ovvio (v. ,in tema di accertamenti
      per escludere o affermare la paternità , quanto viene affermato da Corte.
      Cost.,n. 170/99 ; n. 134/85 ). Quando però la
      rivisitazione non può porsi in termini di diversa applicazione, pur
      sempre compatibile con il dettato della norma , ma la nuova acquisizione
      scientifica configge con la norma stessa, è quest’ultima a dover venire
      meno .
       
      Occorre ora sottolineare
      nettamente  che le conclusioni alle quali perviene la scienza
      psichiatrica sono di carattere neutro rispetto alla problematica generale 
      garantismo/   repressione, perché non attengono al livello di
      risposta penale rispetto al fatto criminoso  ma al “come” la
      malattia mentale , eventualmente causa di non imputabilità viene
      accertata . Del resto , anche oggi la giurisprudenza non ha difficoltà ad
      ammettere che non tutte le infermità mentali danno luogo all’incapacità
      di intendere e di volere .
      Resta da vedere se
      l’eliminazione di norme così importanti , almeno apparentemente, possa
      creare seri problemi al sistema penale (questo giudice infatti denuncia
      non solo l’art. 90 , ma il completo impianto normativo costituito dagli
      artt. 85-88-89-90, oltre all’appendice processuale costituita
      dall’art. 220, 2° comma  cpp ).
      A parte l’ovvia
      considerazione secondo la quale, se si parte dal presupposto da cui
      procede questo rimettente, secondo cui trattasi di strumenti normativi
      sostanzialmente  inservibili , non si vede come la loro eliminazione
      potrebbe  provocare danni , occorre dire che quanto ripugna alla
      coscienza sociale, quanto attiene alla possibilità dell’uomo di
      scegliere tra valore e disvalore, ecc. ecc. , potrebbe benissimo essere
      spostato sul terreno dell’applicazione dell’art. 42 c.p. .
       Già il legislatore
      del 1930 osserva che mentre l’art. 85 regola la generica capacità di
      agire nel campo penale senza riferimento ad un determinato fatto concreto
      , l’art. 42 prevede l’effettiva volontà del caso concreto , per cui
      si tratterebbe di “due posizioni diverse della volontà . Nella capacità
      di diritto penale o imputabilità , la volontà è considerata al momento
      della possibilità . Nella effettiva responsabilità penale la volontà è
      considerato nel momento della sua attuazione “ (Relazione al Re , n. 26)
      . Oltre a ciò, il giurista potrebbe utilmente rinunciare ad ogni
      definizione o pre-definizione della infermità mentale , eliminando così
      tutti gli imbarazzi che attengono alle prese di posizione più o meno
      metafisiche .
      Di conseguenza, questo Giudice ritiene rilevante e
      non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale
      degli artt. 85-88-89-90 c.p. in quanto presuppongono una nozione di
      infermità , nella specie psichica, superata dalle nuove acquisizioni
      della scienza ed in quanto tale , non utilizzabile in alcun modo , e
      pertanto contrastanti con il criterio di ragionevolezza di cui all’art.
      3 della Cost. nonché in quanto , utilizzando una nozione di infermità
      come sopra descritta , precludono al giudice il potere-dovere della
      motivazione dei suoi provvedimenti giurisdizionali , poiché l’iter
      logico di tale argomentazione sarebbe irrimediabilmente inficiato dalla
      incongruità della nozione di infermità comunemente utilizzata .
       
      P.Q.M.
       
      Dichiara rilevante e non
      manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli
      artt. 85-88-89-90 c.p. , per contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost. .
      Sospende il procedimento ed ordine
      l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale .
      Dispone che la presente ordinanza sia
      notificata a cura della cancelleria al Presidente del Consiglio dei
      Ministri e comunicata ai Presidenti delle due camere, dandosi atto che né
      è stata data  lettura in udienza per gli altri soggetti destinatari
      .
       
      Fabriano li 13.2.03      
                                          il
      Giudice
                                                                         Dr.
      Cesare Marziali
      rip. da http://www.ctu.it/perizia/marziali.htm