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      Ferdinando Imposimato
      *La giustizia e l’investigazione*
      http://www.scienzeinvestigazione.it/univ/lezioni/2004_2005/istituzione_diritto_penale/1/1.pdf.
      
      Nel momento in cui inizio le mie lezioni presso la Università degli
      Studi di L'Aquila,
      affido agli studenti, ed ai docenti che mi hanno concesso la loro
      fiducia — primi tra
      tutti il professor Francesco Sidoti ed il preside Claudio Pacitti, che
      hanno avuto il
      coraggio di osare – queste mie brevi riflessioni, rivolgendo lo sguardo
      verso il
      passato, al ricordo di Maestri da cui ho cercato di attingere utili
      insegnamenti per la
      mia vita. Ma i miei limiti sono enormi. Per questo, sul mio tentativo di
      trasmettere le
      mie conoscenze ai giovani, non posso accampare alcuna pretesa di
      autorevolezza. Da
      profano, ho preso il coraggio di esporre opinioni unicamente fondate
      sull'esperienza
      personale e sulle convinzioni personali.
      L'Università è sempre stata il mezzo più importante per tramandare da
      una
      generazione all'altra la ricchezza della tradizione. Oggi questo è
      ancora più vero che
      nel passato perché, con il moderno sviluppo della vita economica, la
      famiglia, come
      portatrice della tradizione e dell'istruzione, si è indebolita. La
      continuazione e la
      salute della società umana dipendono quindi in grado più elevato che in
      passato
      dall'insegnamento.
      Il mio desiderio è non soltanto suscitare l’amore per il diritto penale
      e per la ricerca
      della verità, ma anche di sviluppare nei giovani quelle qualità e
      capacità umane che
      sono utili al benessere della comunità. Il mio sogno è quello di
      concorrere con gli
      altri docenti alla formazione di individui che pensino ed agiscano in modo
      indipendente, pure avendo nel servizio della comunità il proprio più
      alto compito
      ideale. Ma dovrei sforzarmi di conseguire questo ideale con discorsi
      moralistici?
      Niente affatto. Le parole sono e restano vacui suoni, e la strada per la
      perdizione è
      stata sempre accompagnata da false proclamazioni di devozione ad ideali.
      La
      personalità non si forma con quello che si sente e si dice, ma con
      l'applicazione e
      l'azione.
      Altro obiettivo che desidero raggiungere è quello di persuadere i
      giovani che essi non
      debbono avere come scopo o come scopo prevalente della vita, il
      successo. Perché
      l'uomo di successo è di regola quello che riceve moltissimo dal proprio
      prossimo, in
      genere molto più del servizio da lui prestato al prossimo. Il valore di
      un uomo,
      invece, va valutato in ciò che da, non in ciò che riesce a farsi dare.
      La motivazione più importante per chi studia e per chi insegna è il
      piacere del lavoro,
      il piacere dei suoi risultati e la consapevolezza del valore di tali
      risultati per la
      comunità: /Ars gratia artis/. L'insegnamento deve destare e consolidare
      tali forze
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      *Page 2*
      
      psicologiche nei giovani, temprandoli e suscitando l'amore per la
      ricerca e per la
      verità. Solo un tale fondamento psicologico conduce ad un gioioso
      desiderio dei più
      alti beni umani: la conoscenza e la capacità artistica. Ed ecco alcune
      considerazioni
      sulla giustizia e sulla legge, cui ho dedicato gran parte della mia vita.
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      *Page 3*
      
      *Giustizia ed etica*
      La giustizia generalmente viene considerata dal punto di vista morale.
      Essa è intesa
      come virtù individuale e collettiva. E consiste, secondo Ugo Grozio nel
      nutrire per il
      prossimo l'amore, il rispetto e la stima che per noi è appropriato
      nutrire nei suoi
      confronti. Questo senso della giustizia si concretizza nell'appropriata
      beneficenza,
      nell'uso idoneo di ciò che è nostro, nel votarlo a quegli scopi di
      carità o generosità a
      cui nella nostra situazione è più adeguato devolverlo. In questo senso
      la giustizia
      coincide con la solidarietà sociale.
      Ma vi è ancora un altro senso in cui si intende la parola giustizia.
      Essa per Platone
      consiste nella perfetta e rigorosa appropriatezza di comportamento e
      condotta e
      comprende le virtù della prudenza, della fortezza, della temperanza e
      della
      intelligenza. In questo senso Platone ritiene che la giustizia comprende
      in sé ogni
      sorta di *virtù*.
      Il concetto di giustizia può essere dunque usato in molti modi e in
      molti significati. Il
      padre dell'economia classica Adam Smith, nella /Teoria dei sentimenti
      morali/,
      considera la giustizia come una "virtù", la cui osservanza non
      è
      lasciata alla libertà
      del volere, "ma può essere imposta con la forza" e la cui
      violazione rende i
      responsabili passibili di risentimento e quindi di punizione.
      Per Smith ciò che caratterizza la giustizia è la sua imperatività: ci
      sentiamo sottoposti
      ad un obbligo ad agire in un certo modo secondo giustizia che invece non
      sentiamo
      secondo amicizia, carità o generosità. La pratica di queste ultime virtù
      è in qualche
      misura "facoltativa" mentre ci sentiamo particolarmente
      vincolati,
      costretti, obbligati
      ad osservare la giustizia. Sentiamo cioè - dice Smith - che con la
      massima
      appropriatezza e con l'approvazione degli uomini si potrà usare la forza
      per
      costringerli ad osservare le regole della giustizia, ma non per
      costringere a seguire i
      precetti di carità e generosità.
      Come si vede, questa concezione della giustizia contiene in sé
      l'elemento del
      comando, con la possibilità di imporla con la forza, a differenza delle
      altre virtù. Per
      coloro che ritengono *il comando - dalla radice ius - *l'essenza della
      giustizia, non vi
      è identificazione tra giustizia e virtù, ben potendo accadere che si
      sarà costretti ad
      applicare una legge ingiusta sul piano dell'etica. Poiché l'attuazione
      della giustizia è
      qualcosa che gli uomini non accetteranno mai gli uni dagli altri, come
      giustizia
      privata, interviene il magistrato che deve impiegare il potere della
      comunità per
      imporre la pratica della giustizia.
      Senza questa precauzione la società civile diverrebbe teatro di
      disordini e di
      spargimenti di sangue, ed ognuno si vendicherebbe con le proprie mani ogni
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      qualvolta immaginasse di essere stato offeso. Per evitare la confusione
      che
      seguirebbe se ogni uomo si facesse giustizia da sé, il magistrato si
      impegna a fare
      giustizia a tutti riparando ogni torto.
      Alla fine Smith riconosce che la giustizia è *uno strumento *per
      risarcire colui che ha
      subito un danno. Essa consiste in un sistema di regole: «in tutti gli
      stati ben governati,
      non solo sono designati giudici per risolvere le controversie fra
      individui, ma
      vengono prescritte norme per regolare le decisioni dei giudici».
      In generale si pensa che le regole che vincolano i giudici coincidano
      con quelle della
      giustizia naturale: uguaglianza, solidarietà, generosità. Invero esse
      non coincidono
      sempre. Smith osserva che «talora l'interesse del governo e l'interesse
      di particolari
      gruppi di uomini che tiranneggiano il governo, fanno allontanare le
      leggi positive di
      un paese da ciò che la giustizia naturale prescriverebbe». Per Smith,
      non vi è sempre
      coincidenza tra legge e morale. «In nessun paese le decisioni delle
      legge positiva
      coincidono esattamente, in ogni caso, con le regole che il senso
      naturale di giustizia
      detterebbe». Tuttavia, qualunque sia il loro contenuto, i sistemi di
      legge positiva
      meritano la massima autorità. La giustizia, cioè contiene in sé un
      comando che, come
      tale, va eseguito sempre e comunque.
      Il problema del rapporto tra giustizia e morale si pone costantemente
      nella pratica
      quotidiana. Quando vi è contraddizione tra la legge e la morale essa non
      può essere
      risolta dal giudice, poiché i concetti di coscienza e di morale variano
      da uomo ad
      uomo e quindi da giudice a giudice. Conosco individui che ritengono
      eticamente
      giusta la violenza sessuale sulle donne ed altri che la ritengono un
      delitto gravissimo
      da punire con la morte. Questa diversità di opinioni si riflette anche
      nell'amministrazione della giustizia.
      In nessuno degli antichi moralisti troviamo alcun tentativo di una
      particolare
      enumerazione delle regole di giustizia naturale. Nelle leggi di Cicerone
      e Platone,
      dove sarebbe logico attenderci l'elencazione delle regole dell'equità
      naturale che
      dovrebbero essere imposte dalle leggi positive di ogni paese, non si
      trova però nulla
      del genere.
      Nessuna *società *può esistere senza la giustizia, intesa come
      applicazione della legge
      positiva che può non coincidere pienamente con i principi dell'etica. La
      beneficenza -
      dice Smith- è meno essenziale della giustizia alla esistenza della
      società. «La società
      può esistere senza beneficenza, pur non nello stato più confortevole: ma
      il prevalere
      dell'ingiustizia la distrugge totalmente».
      La giustizia viene considerata da Smith essenzialmente come strumento
      diretto a
      garantire l'ordine e la sicurezza delle persone. La beneficenza è
      l'ornamento che
      abbellisce l'edificio, non il fondamento che lo sostiene. La giustizia,
      invece, è il
      principale pilastro che sorregge l'intero edificio della società. Se
      viene rimosso il
      pilastro giustizia, la società umana in un attimo si sgretolerà in
      singoli atomi. La
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      società non può esistere se le leggi della giustizia non vengono
      osservate a
      sufficienza. L'ingiustizia tende necessariamente a distruggere la società.
      Il concetto di giustizia inteso come bene supremo dei cittadini venne
      elaborato da
      Socrate. Nel dialogo con l'amico Critone, che di fronte ad una *condanna
      ingiusta*, lo
      esortava a fuggire dal carcere con la complicità di giudici corrotti, il
      grande filosofo
      reagisce esaltando la sacralità della legge e della giustizia che
      applica la legge, sia
      quando è giusta sia quando cade nell'errore. "Non si deve rispondere
      ad una
      ingiustizia con un'altra ingiustizia, né far del male a nessuno,
      qualunque offesa si sia
      ricevuta". Dinanzi alla prospettiva offertagli di fuggire dal
      carcere,
      dove attendeva la
      condanna a morte, Socrate dice a Critone: "Supponi che mentre stiamo
      per
      fuggire, ci
      apparissero le leggi e lo Stato e ci chiedessero: "Di un po',
      Socrate, a
      cosa tendi, per
      quanto sta in te, se non a distruggere noi, le Leggi e lo Stato insieme,
      compiendo
      questa fuga?. Pensi proprio che possa sussistere ancora, senza che veda
      sottosopra,
      quello Stato le cui leggi siano rese inefficaci, calpestate e inutili da
      cittadini privati?
      Cosa rimproveri a noi e allo Stato, che tu hai intenzione di
      distruggere? Non è forse
      innanzitutto grazie a noi che sei nato? Non siamo stati noi a presiedere
      al matrimonio
      di tuo padre e di tua madre che poi ti generarono? Rispondi, hai da
      obiettare qualcosa
      contro quelle leggi che regolano i matrimoni? E contro quelle istituite
      per provvedere
      all'infanzia e all'educazione, quella che tu stesso hai
      ricevuto?…".
      Socrate esorta Critone a rispettare le leggi e la giustizia che le
      applica assimilando le
      une e l'altra al bene supremo della patria. "Ma se sei così sapiente
      da
      non sapere che
      la patria è molto più nobile, più rispettabile e più sacra della madre
      e
      del padre e di
      tutti i nostri avi e che è molto stimata sia dal dio che dagli uomini di
      sano intelletto,
      che bisogna avere rispetto e venerazione, calmarla quando è in collera,
      più ancora del
      padre, persuaderla dei suoi errori e ubbidire ai suoi comandi e
      sopportare ciò che essa
      ci ordina di sopportare, maltrattamenti, carcere ... e fare sempre quel
      che la patria
      comanda oppure, al massimo, cercare di convincerla da che parte è la
      giustizia, ma
      non opporsi ad essa". Dunque l’accettazione della legge e della
      giustizia come beni
      supremi da difendere in ogni caso, poiché difendendo loro, difendiamo la
      democrazia, la libertà, il progresso, la convivenza. Anche se abbiamo il
      diritto di
      criticarle per i loro errori.
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      *Page 6*
      
      *Giustizia e processo*
      Socrate ed il suo allievo Platone sapevano che una cosa è la giustizia
      intesa come
      virtù etica, altra cosa è la giustizia nella quale ci imbattiamo tutti i
      giorni con le sue
      lungaggini, i suoi errori, le sue astrusità, il suo costo, la sua
      imperfezione. E di questo
      siamo ben consapevoli anche noi, poiché nulla è cambiato in questi 2.500
      anni di
      vita: la giustizia è sempre imperfetta, fallace, lenta, ben diversa da
      quella cui
      aspiriamo.
      Nella pratica quotidiana ci rendiamo conto del distacco tra la giustizia
      quale è e
      quella che dovrebbe essere nelle aspirazioni di tutti. E qui il campo
      della nostra
      riflessione diviene così ampio che appare necessario limitare la nostra
      analisi ad
      alcuni aspetti essenziali del problema, quelli che riguardano la
      giustizia come
      processo inteso come insieme di regole per affermare l'imperio della
      legge.
      Ancora una volta ci viene in aiuto Adam Smith. Egli sostiene che la
      giustizia richiede
      la determinazione con la massima esattezza delle regole per
      amministrarla. Smith
      coglie *la diversità tra giustizia e giudizio*, tra giustizia e
      processo, affermando come
      la prima non possa esistere senza che siano determinate con estrema
      precisione le
      regole del secondo. Ma le regole della giustizia non possono essere
      lasciate al
      giudice: devono essere fissate per legge dal Parlamento con la massima
      precisione. E
      non possono ammettere eccezioni o modifiche se non quelle che sono
      formulate
      altrettanto chiaramente quanto le regole stesse e che in generale
      discendono dagli
      stessi principi da cui discendono le regole.
      Sebbene possa sembrare formalismo pedante e inopportuno ostentare una
      troppo
      stretta adesione alle comuni regole della prudenza, non v'è alcuna
      pedanteria
      nell’aderire saldamente alle regole della giustizia. Anzi -riconosce
      Adam Smith - alle
      regole della giustizia è dovuto il più sacro rispetto e «le azioni che
      tale virtù esige non
      sono mai compiute così appropriatamente come quando il motivo principale
      per
      compierle è un riguardo reverenziale e religioso per le regole generali
      che le
      impongono».
      In altre parole per Smith la giustizia si realizza attraverso un sistema
      di regole
      inderogabili, poste al giudice nell'applicazione della legge. E sarebbe
      improprio
      considerare il fine della giustizia come virtù che prevale sulla regola
      che quel fine
      intende perseguire. Il giudice che applica rigorosamente le regole del
      processo e
      aderisce con la più ostinata fermezza alle regole generali è il più
      lodevole e affidabile
      dei giudici. Sebbene il fine delle regole di giustizia cioè del processo
      penale, civile o
      amministrativo sia impedire di far del male al prossimo o di risarcire
      la vittima del
      male subito, sarebbe un crimine violarle, anche se potremmo sostenere
      con qualche
      pretesto che tale particolare violazione non solo sia innocua ma sia
      addirittura
      necessaria per la giustizia "sostanziale", cioè la giustizia
      intesa come
      etica o come
      bene comune.
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      *Page 7*
      
      Nel momento in cui il giudice pensa di allontanarsi da una adesione
      assoluta e
      vincolante a ciò che gli inviolabili precetti gli prescrivono, non ci si
      può fidare di lui e
      non si può più dire a quale grado di colpa e di arbitrio egli possa
      giungere.
      E sarebbe pericoloso giustificare con ipocrite parole nobilitanti
      (interpretazione
      evolutiva, giustizia sostanziale) le manipolazioni delle regole da parte
      del giudice. Il
      rischio sarebbe quello di affidare la scelta del "bene" che si
      vuole
      perseguire con la
      giustizia e delle regole ai mutevoli umori degli uomini. Ma la scelta
      delle regole del
      processo necessario per amministrare giustizia è compito del legislatore
      e richiede
      l'adesione ad alcuni principi fondamentali che siano rispettosi dei
      diritti umani.
      Attraverso il processo, l'ordinamento di ogni paese vuole perseguire
      contemporaneamente tre obbiettivi: garantire la giustizia, promuovere il
      bene comune
      e rispettare la certezza del diritto. Abbiamo visto come questi tre
      concetti spesso sono
      incompatibili tra di loro. Ogni sistema democratico moderno considera
      inalienabili
      ed insopprimibili alcuni diritti della persona umana e quindi il loro
      riconoscimento
      nei confronti dell'individuo è irrinunciabile.
      C'è chi intende la giustizia come lo strumento attraverso il quale si
      persegue il bene
      comune, inteso come interesse generale della comunità al cui servizio
      devono essere
      la certezza del diritto e la stessa giustizia. Ma il problema è la
      impossibilità di dare
      una definizione unitaria e condivisa da tutti del *bene comune*: per
      alcuni è la difesa
      dei deboli contro le ingiustizie dei potenti, per altri è il prevalere
      della forza sulla
      debolezza, per altri il comunismo, per altri il capitalismo, per altri
      il liberal-
      socialismo, per altri ancora il fascismo. Adattare la giustizia a
      ciascuno di questi
      differenti modi di concepire il bene comune produce l'arbitrio, il quale
      nasce dal
      conflitto di opinioni, mentre il diritto non può essere lasciato alla
      diversa concezione
      dell'assetto della società.
      Il *compito del giudice *non è quello di ricercare il bene comune o di
      perseguire la
      giustizia sociale ma di applicare la legge come comando, qualunque ne sia
      il
      contenuto. Affidare l'interpretazione della legge alla ragione, al bene
      comune o alla
      coscienza dei singoli o dei gruppi significa assumere parametri molto
      incerti che
      variano da persona a persona e da gruppo a gruppo. C’è chi pensa sia
      grave uccidere
      una mosca poiché si turba l'equilibrio naturale e chi giustifica
      l'uccisione di milioni di
      uomini per il progresso dell'umanità. C'è chi pensa di dover rispettare
      i beni degli altri
      e chi invece ritiene che se una persona ha molto denaro, sia giusto
      sottrargliene una
      parte anche con la forza con buona coscienza e per il bene comune. C'è
      chi pensa che
      sia nell'interesse generale lavorare e pagare le tasse e chi invece
      ritiene che la fatica
      sia umiliante per gli uomini superiori e che tutto sia loro dovuto per
      ragioni di censo
      o di razza. Per alcuni il furto è considerato un delitto molto più grave
      della
      corruzione, che per altri va punita con la pena di morte. E così di
      seguito.
      Si comprende agevolmente come il diverso modo di sentire le cose e di
      stabilire i
      valori porta a concezioni diverse e spesso diametralmente opposte della
      legge e della
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      *Page 8*
      
      giustizia. Esse variano da soggetto a soggetto e da giudice a giudice,
      mentre invece
      sentiamo che debbono essere fisse ed immutabili le regole attraverso le
      quali si
      amministra la giustizia.
      Si tratta di un problema di grande rilevanza pratica poiché riguarda un
      principio
      fondamentale di ogni sistema giuridico quello della immutabilità del
      comando
      espresso dalla legge. Che rende possibile realizzare l'obbiettivo che la
      legge è uguale
      per tutti. Nessuno può essere più saggio della legge che deve applicare:
      "/neminem/
      /oportet legibus esse sapientiorem/" sicché deve essere condiviso
      l'insegnamento di
      Seneca: “/lex iubeat, non disputet/" la legge deve comandare non
      discutere. Insomma
      non è la saggezza ma l'autorità che fa la legge. Se si fondasse il
      diritto sulla saggezza,
      sulla ragione, si potrebbe dire, contro qualsiasi legge, anche la più
      giusta sul piano
      etico, che essa è contro la ragione e trarre da ciò un pretesto per
      disapplicarla. Diceva
      Tommaso Hobbes, riaffermando il valore della legge come comando; «Io non
      stetti
      molto a ricercare quale di esse fosse più o meno razionale e giusta,
      perché le studiavo
      non per discutere con esse, ma per obbedire ad esse, ed in tutte
      riconoscevo un
      sufficiente motivo per la mia obbedienza e vedevo che il motivo stesso
      rimane con il
      mutare della legge».
      Certo non possiamo non porci l'obiezione di chi si trova di fronte ad
      una *legge*
      *eticamente ingiusta*, contraria all'interesse generale e protesa verso
      la difesa del bene
      individuale, di beni corporativi contro il bene comune. E un'ipotesi
      ricorrente nella
      storia del nostro secolo. Basti pensare alle leggi di Hitler o a quelle
      di Stalin per
      rendersi conto che molto spesso il contenuto della legge è contro il
      senso di giustizia
      che è anzitutto libertà e rispetto dei diritti della persona umana.
      Ma neppure in questo caso la legge può essere modificata dal giudice
      neppure con il
      pretesto dell'interpretazione evolutiva della legge in vista del bene
      comune. I giudici
      debbono essere al servizio della legge e non dell'etica. E nel caso di
      conflitto tra legge
      ed etica, debbono privilegiare la prima. Poiché la legge è comando, /ius/.
      A modificare l'assetto delle leggi ingiuste non può provvedere il
      giudice ma il popolo
      attraverso i suoi rappresentanti ispirandosi a valori come la giustizia
      sociale, il bene
      collettivo, la difesa dei più deboli e la solidarietà. Questi valori non
      possono perciò
      essere il pretesto per lo stravolgimento del diritto da parte di chi è
      tenuto ad
      applicarlo. Poiché coloro che si rivolgono al giudice lamentando la
      lesione del diritto,
      non debbono essere sottomessi alla ignota, arbitraria, incerta ragione
      di determinate
      singole persone, dovendosi ritenere che gli uomini saggi in tutti i
      tempi si sono
      accordati su certe sicure leggi, regole e sistemi. Un diritto certo ha
      lo svantaggio che
      singole persone debbano soffrire il rigore della legge, ma la
      collettività soffrirebbe
      infinitamente di più gli svantaggi di una legge affidata alla arbitraria
      e incerta volontà
      degli uomini.
      A ben riflettere, il fenomeno della cosiddetta giustizia politica, che è
      negazione della
      giustizia e fonte di gravi pericoli per l'esistenza stessa della
      democrazia, è stato
      ------------------------------------------------------------------------
      *Page 9*
      
      sempre l'effetto di arbitraria applicazione della legge. Poiché una
      stessa norma
      incriminatrice riceve diverse contrastanti applicazioni rispetto ai
      medesimi casi.
      E questo può comportare la distruzione di alcuni soggetti politici e la
      salvezza di altri
      in nome del perseguimento del bene comune o della giustizia come valore.
      Basta 1'
      applicazione o disapplicazione dello stesso comando nei confronti di
      individui diversi
      per provocare conseguenze devastanti per la civile convivenza. Questo
      metodo è
      inammissibile anche se, in astratto, è rivolto a realizzare superiori
      esigenze di
      giustizia poiché queste non sono facilmente definibili. Mentre è certo
      che viola un
      principio fondamentale di tutti gli ordinamenti giuridici: /la legge è
      uguale per tutti/.
      Invocare la coscienza per giustificare l'applicazione o la violazione di
      una legge
      significa affermare la inesistenza della legge ed ammettere la
      possibilità di violare
      ogni norma che non piace con il pretesto che essa urta contro la
      coscienza individuale
      o collettiva. La negazione della validità di una legge il cui contenuto
      non piace è
      anche un mezzo per istigare il popolo alla disobbedienza. Volendo
      sintetizzare il
      concetto di giustizia si può dire con Francesco Bacone che essa è /ius
      dicere /e non /ius/
      /dare, /applicazione della legge al caso concreto e non creazione del
      diritto.
      La giustizia è, dunque, in definitiva *un sistema di regole *che
      confluiscono nel
      processo penale il cui obiettivo primario è quello di applicare
      l'ordinamento giuridico
      il cui fine dovrebbe essere il bene comune. Per molti cittadini questo
      consiste nel
      conciliare la difesa della società e dei singoli cittadini con la tutela
      dei diritti di
      libertà.
      Ma non è facile raggiungere questo delicato equilibrio. Spesso si
      legifera con norme
      liberticide sotto la spinta emotiva della lesione violenta dell'ordine
      democratico, o,
      viceversa, con norme permissive sotto l'influenza di un'apparente
      situazione di
      legalità.
      In ogni paese democratico il legislatore deve preoccuparsi di creare un
      sistema di
      leggi stabili che tutelino i valori della convivenza democratica e
      quelli degli
      individui. Per questo l'attenzione deve essere dedicata anzitutto al
      meccanismo di
      funzionamento del processo con un insieme di regole che garantiscano il
      rispetto dei
      diritti fondamentali della persona, qualunque sia la fase politica
      contingente, la fede
      politica, la razza, e la religione dei cittadini. Da questa esigenza è
      nato quell'insieme
      di principi che vanno sotto il nome di giusto processo (/fair trial/).
      ------------------------------------------------------------------------
      *Page 10*
      
      *Giustizia e impunità*
      La giustizia viene sentita dalla coscienza sociale non solo come valore
      in sé ma anche
      come strumento attraverso il quale un moderno stato democratico
      garantisce il diritto
      dei singoli e della collettività al rispetto della legge. Ma in una
      società giusta, poiché
      i soggetti più forti sono garantiti da loro stessi e dalle loro
      possibilità, anche di
      modificare la legge a loro favore, *la giustizia dovrebbe garantire
      soprattutto i*
      *soggetti più deboli*, ma questo non avviene.
      Dobbiamo riconoscere che non c'è fase storica, non c'è periodo della
      vita dell'uomo o
      di una comunità in cui non si ponga il dramma della giustizia violata
      dagli uomini o
      denegata dallo Stato: la Giustizia in questo caso è avvertita come
      valore negativo,
      come bisogno non realizzato di verità, come bene non protetto, come
      ingiustizia.
      Questo accade anche in tutto il mondo e nella civile Europa.
      /In Belgio ho seguito come consulente delle famiglie la vicenda
      sconvolgente delle/
      /due bambine Julie e Melisse e di altre decine di bambine rapite,
      seviziate, uccise /da
      persone che agivano per conto di importanti organizzazioni il cui
      compito era di
      procurare creature innocenti a potenti e ricchi uomini d’affari,
      politici, finanzieri, per
      i loro turpi giochi erotici che si concludevano con l’uccisione delle
      vittime. Sono
      scomparse centinaia di innocenti sventurate creature vittime della
      barbarie umana , di
      una rete di criminali dediti ad ogni tipo di delitti, ben protetti e ben
      introdotti in molti
      di quegli ambienti che avrebbero dovuto combatterli. Quella storia
      agghiacciante non
      offende solo le famiglie delle vittime e la coscienza popolare dei belgi,
      ma
      dell'Europa e di tutta l'umanità.
      In questi casi la verità storica si conosce, ma spesso accade che i
      pubblici ministeri fanno in modo che essa non venga alla luce e i
      colpevoli
      non siano puniti. L’impunità crea sfiducia nei cittadini; rivolta verso
      l’autorità,
      crea discredito verso la giustizia, che viene vista come un nemico da
      combattere.
      Nella pratica quotidiana ci rendiamo conto del distacco tra la giustizia
      quale dovrebbe
      essere nelle aspirazioni di tutti e quella che è nella pratica di tutti
      i giorni. E della
      violazione del principio fondamentale di ogni ordinamento, quello della
      effettività
      della legge è uguale per tutti. I più pessimisti giungono a conclusioni
      disperate.
      La giustizia intesa come applicazione della legge al caso concreto per
      molti giuristi
      non corrisponde alla realtà, perché /il giudice come uomo porta in sé
      la
      tendenza alla/
      /dissoluzione dell'autorità della quale è investito/. L'esperienza -
      essi sostengono - ha
      tolto ogni illusione sui rapporti tra i giudici e la legge. La formula
      convenzionale che
      fa della legge il centro dell'esperienza giuridica, il comando
      immutabile dell'autorità
      di cui il giudice è l'esecutore, non inganna più nessuno. Noi sappiamo
      che è il giudice
      che condanna e assolve, non la legge. E per questo la sua opera è tanto
      esaltata e
      ------------------------------------------------------------------------
      *Page 11*
      
      maledetta come fosse dovuta alla sua volontà (vedi in proposito
      Salvatore Satta, /Il/
      /Mistero del Processo/).
      ------------------------------------------------------------------------
      *Page 12*
      
      *L’imparzialità del giudice*
      Si potrebbe essere indotti a chiedersi quali siano state le ragioni che
      hanno indotto il
      legislatore a fissare con legge il principio della imparzialità del
      giudice, che dovrebbe
      essere insito nella stessa funzione del giudicare. Questa esigenza nasce
      dalla
      drammatica esperienza della giustizia politica, che è negazione del
      concetto stesso di
      giustizia . Essa ci ha offerto non pochi casi di processi non ispirati
      all'imparziale
      applicazione della legge. Essi hanno suscitato nella pubblica opinione
      un grande
      allarme sociale. E’ accaduto in Italia ed in Belgio con il processo
      Doutroux.
      Da ciò deriva come tra tutte le virtù di cui il giudice deve essere
      dotato –
      l’imparzialità, la saggezza, l'onestà, l'equilibrio-, la prima appare
      la
      più importante: è
      la fondamentale garanzia dei cittadini contro il rischio della giustizia
      politica. Il
      problema è eterno. /In tutte le epoche chi governa cerca di assoggettare
      i giudici al/
      /proprio potere /per garantirne il rafforzamento e la conservazione. I
      precedenti da
      citare sarebbero moltissimi. Valga per tutti il ricordo della vicenda
      drammatica di
      *Papiniano e Ulpiano*, che erano i vertici della giurisdizione -
      qualcosa di simile alla
      Corte di Cassazione - al tempo dell'Imperatore Caracalla. Chiamati
      dall'Imperatore a
      difenderlo dinanzi al Senato per l'omicidio del fratello Geta, si
      rifiutarono entrambi di
      scendere nell'agone politico. Essi preferirono essere decapitati
      piuttosto che
      rinunziare alla loro terzietà e indipendenza rispetto all'imperatore ed
      al Senato che
      erano espressione del potere esecutivo e legislativo. A questi esempi
      dovrebbero
      guardare giudici e governanti nella nuova Europa.
      E se è vero, dunque, che il giudice è un uomo come gli altri, è vero
      anche che a
      differenza degli altri deve sapere reprimere le sue passioni e tenere
      lontane le
      tentazioni di mettersi al servizio del potere, pena l'impossibilità di
      svolgere
      degnamente la sua funzione.
      In questa attività, /il giudice non è l'arbitro conoscitore del bene e
      del male/, del
      lodevole e del riprovevole, del giusto e dell'ingiusto ma /è solo colui
      che applica la/
      /legge/, qualunque ne sia il contenuto. E anche se conclude che il
      contenuto della legge
      è contrario ai principi dell'etica , ha l'obbligo di applicarla.
      La giustizia non è un valore in sé, ma uno strumento che consente
      all'uomo,
      attraverso il giudice, di conseguire di volta in volta il bene contenuto
      nella legge. Il
      quale non sempre è il bene della collettività. “/Non omne quod licet
      honestum est/”,
      secondo l'insegnamento di Ulpiano. Non tutto ciò che è consacrato dalla
      legge è
      onesto. Non sempre la legge risponde ai principi dell'etica. E se questo
      avviene, se
      una legge è eticamente ingiusta, può il giudice violarla per sostituire
      ad essa ciò che
      egli ritiene il bene comune, la verità , la sua concezione della
      libertà? No. Neppure in
      questo caso, il giudice può sostituirsi alla volontà della legge. Se lo
      farà una sola
      volta, se gli sarà consentito di farlo una sola volta, non sarà
      possibile vietarglielo in
      tutti gli altri casi in cui la sua coscienza e la sua ragione lo
      spingeranno a farlo.
      ------------------------------------------------------------------------
      *Page 13*
      
      *Giustizia ed errore*
      Bisogna anzitutto partire da un dato. Nell’esame dei diversi casi
      giudiziali relativi
      all’accertamento di un reato, esistono due verità antitetiche: una
      verità reale e una
      processuale. Queste due verità non coincidono quasi mai. L’obiettivo
      fondamentale
      del giudice e dell’inquirente in generale consiste nel fare emergere la
      verità storica,
      affinché tra questa e il giudizio finale vi sia una perfetta
      coincidenza. Questo
      risultato, tuttavia, difficilmente viene raggiunto, per una serie di
      ragioni sia di ordine
      empirico che professionale. L’aspetto drammatico del processo è che il
      giudice, nel
      conflitto tra le *due verità*, è tenuto a seguire soltanto e
      semplicemente quella
      processuale, anche quando percepisce che essa contrasta con la verità
      reale che non
      affiora nel processo. Questa contraddizione può manifestarsi in due
      modi: il giudice
      può avere la convinzione morale della colpevolezza della persona
      imputata nei
      confronti della quale però manchino le prove o queste non siano
      sufficienti. In questo
      caso il giudizio non può che essere di assoluzione. Nel secondo caso, il
      giudice può
      avere l’intima convinzione dell’innocenza di una persona, ma le prove
      processuali –
      testimonianze, riconoscimenti, perizie – depongono contro l’imputato
      per
      errori o
      incapacità professionale dei periti o per semplice compiacenza verso
      tesi accusatorie.
      La conseguenza è drammatica: la condanna dell’imputato è «giusta»
      sul piano
      processuale ma ingiusta su quello sostanziale. E la tragedia dell'Enrico
      VIII di
      Shakespeare, nella quale il duca di Buckingham, condannato a morte per
      le accuse
      calunniose dei suoi servi, non impreca contro i giudici ma ne accetta il
      verdetto:
      «Non nutro rancore contro la legge (giustizia) per la mia morte: alla
      stregua del
      processo essa doveva infliggermela, ma desidero che coloro che mi hanno
      accusato
      divengano più cristiani...».
      E questo accade perché la legge impone che il giudice deve decidere solo
      in base alle
      emergenze processuali. Anche se intuisce la verità reale, egli ha
      l'obbligo di applicare
      la legge, quindi di tener conto delle risultanze processuali che molto
      spesso portano
      lontano dalla verità reale. Rispetto a quest'ultima, le deviazioni sono
      dipendenti da
      diversi fattori: da errori dei testimoni nella percezione della verità
      (si confonde una
      persona con un'altra), degli investigatori nella ricerca delle prove,
      dei periti nella
      ricostruzione di un fatto storico, del giudice nell'esercizio del metodo
      deduttivo con il
      quale si risale da un fatto certo ad un altro fatto.
      Una deviazione assai frequente della verità storica è quella che nasce
      da /perizie/
      /medico-legali e psichiatriche errate/. Nel caso di un delitto con
      autore ignoto e con
      molti sospettati, l'affermazione da parte del perito medico legale che
      si tratta
      dell'opera di un sadico, di un maniaco sessuale che ha certe
      caratteristiche fisiche e
      psichiche (si presume in alcuni casi di definire l'altezza e la
      corporatura dell'ignoto
      autore!), unita alla conclusione del perito psichiatrico che la persona
      soprattutto è un
      ------------------------------------------------------------------------
      *Page 14*
      
      soggetto che ha quelle caratteristiche descritte dal medico legale,
      producono come
      conseguenza pericolosa l'errore del giudice.
      Nella mia non breve esperienza, non è stato infrequente *l'errore dei
      periti*
      *psichiatrici d'ufficio *(cioè nominati dal giudice) nell'accertamento
      della «capacità di
      intendere e/o di volere di un soggetto». Sovente essi hanno affermato
      che il soggetto
      rientrava in una certa categoria che era proprio quella nella quale il
      pubblico
      ministero aveva collocato l'autore del delitto. Ma non è stato raro il
      caso del privato
      che ha assecondato l'orientamento sbagliato della pubblica opinione.
      I periti, insomma, compiono spesso il loro lavoro sotto la spinta di
      fattori emotivi, di
      elementi extrascientifici che li conducono a conclusioni lontane dalla
      verità. E questa
      è una delle cause più frequenti dell'errore giudiziario. Non mi
      riferisco soltanto ai
      periti psichiatrici, ma anche a quelli balistici, grafici, ai medici
      legali in genere. Le
      perizie, specialmente nei grandi processi, sono un dato costante della
      ricerca della
      verità. A volte allontanano dalla verità, perché compiute da persone
      che
      non sono in
      grado di far bene il proprio lavoro - anche se solo raramente si tratta
      di persone in
      malafede.
      Esempio classico: nell'esame ordinato per l'omicidio del giudice Emilio
      Alessandrini,
      ci fu un perito che affermò con certezza assoluta che l'arma che aveva
      sparato il
      proiettile mortale contro il giudice, era una certa pistola. Siccome
      questa pistola
      proveniva da un certo terrorista, che era un uomo che aveva commesso un
      altro
      omicidio, il giudice disse: «Questo è l'uomo che ha ucciso
      Alessandrini». Sennonché,
      a distanza di quattro o cinque anni, venne fuori il vero assassino che
      confessò,
      aggiungendo di aver sparato con un'altra pistola. Altri periti, in
      seguito, confermarono
      che il primo aveva sbagliato. Da allora mi resi conto che quell'uomo
      avrebbe potuto
      subire un ergastolo per via di una perizia sbagliata, e che se non fosse
      venuto fuori il
      vero autore dell'omicidio, quell'errore non sarebbe mai stato scoperto.
      Ma il problema è che non sempre vengono fuori i veri autori di un
      crimine. Molto
      spesso, poi, il giudice non è in grado — un po' per incapacità, un po'
      per superbia, un
      po' per gli errori altrui - di cogliere l'errore. Di qui le tragedie che
      si verificano: il
      numero degli errori giudiziari è molto superiore a quello che viene
      normalmente
      percepito nella realtà.
      Io stesso debbo rimproverarmi in proposito. Ad esempio, in relazione
      all’omicidio di D’Agostino Antonio, boss mafioso calabrese, rinviai a
      giudizio
      Domenico Papalia sulla base di due indizi (il fatto che Papalia si
      trovasse con la
      vittima al momento in cui questa venne raggiunta da numerosi colpi di
      pistola ad
      opera di uno sconosciuto e la fuga dello stesso Papalia subito dopo
      l’agguato). La mia
      decisione di rinviarlo a giudizio avvenne mentre Papalia, che era
      pregiudicato per
      diversi reati di stampo mafioso, rimase latitante. La mia convinzione
      era di rinviare a
      giudizio, affidando alla Corte d’Assise il compito di approfondire la
      posizione
      processuale di Papalia. La sentenza di rinvio a giudizio, come affermato
      ------------------------------------------------------------------------
      *Page 15*
      
      ripetutamente della Cassazione non richiede gli stesse elementi di prova
      richiesti per
      la condanna. Tuttavia, nonostante che gli indizi da me raccolti si siano
      indeboliti
      nell’istruttoria dibattimentale fino a vanificarsi del tutto grazie ad
      alcune perizie
      balistiche che dimostravano l’estraneità del Papalia, la Corte
      d’Assise
      in primo e in
      secondo grado, con la ratifica della Cassazione, condannò all’ergastolo
      il Papalia. Io
      riconobbi pubblicamente che il mio errore iniziale si era protratto sino
      alla Corte di
      Cassazione!
      Un'altra causa molto frequente dì errore è costituita dai riconoscimenti
      personali: è
      molto facile che siano sbagliati. Nell’istruire il caso Moro. ricordo di
      aver ascoltato
      personalmente cinque o sei testimoni che affermavano con assoluta
      certezza di aver
      visto in via Fani un terrorista la cui descrizione corrispondeva a
      Corrado Alunni.
      Quest'ultimo, inevitabilmente, ricevette un mandato di cattura per
      concorso nel
      sequestro e nell'omicidio di Aldo Moro. Sennonché, per sua fortuna,
      presto vennero
      fuori i veri autori della strage di via Fani, che esclusero
      categoricamente che Alunni
      fosse presente; in secondo luogo, non fu difficile appurare che egli, il
      giorno del
      sequestro, era detenuto. Ecco, questa vicenda rappresenta il classico
      esempio di
      errore compiuto dal giudice, ma provocato dall'errore altrui: il giudice
      è infatti
      obbligato a tener conto delle testimonianze di persone della società
      civile,
      disinteressate e che non conoscendosi tra loro facciano il medesimo
      riconoscimento
      personale nel rispetto delle garanzie stabilite dalla legge, quando per
      giunta
      affermano qualcosa «con assoluta certezza».
      Un altro caso legato all'omicidio di Girolamo Tartaglione: una ragazza
      confessò di
      essere responsabile dell'assassinio, chiamando in correità altre due
      persone. Nel
      leggere il testo della confessione di questa ragazza - molto precisa e
      dettagliata - mi
      resi conto che si trattava di un falso, per un paio di particolari
      rivelatori. Non volli
      accettare quella «verità» processuale, condivisa invece dal generale
      Carlo Alberto
      Dalla Chiesa e dal pubblico ministero. Non volli assecondare la tesi
      della stampa che
      parlava di brillante soluzione del caso Tartaglione. Ero convinto, sulla
      base di due
      dati oggettivi, che la *verità processuale *emersa fino a quel momento
      non fosse
      corretta. Riuscii, col tempo, a convincere la donna a ritrattare e ad
      affermare che
      aveva confessato il falso. Per fortuna, perché poco tempo dopo vennero
      fuori i veri
      autori dell'omicidio (Valerio Morucci e Adriana Faranda).
      Ebbene, questo esempio serve a dimostrare ciò che vado da sempre
      ripetendo: la
      confessione non è «la madre di tutte le prove», perché può accadere
      che
      anch'essa sia
      fonte di errore. Che cosa può consentire di capire quando qualcuno dica
      il vero e
      quando il falso? La professionalità di un giudice o di un investigatore.
      indipendentemente dall'esistenza di altri elementi che possano smentirlo.
      Uno dei fattori capaci di provocare l'errore giudiziario è poi la
      presenza, nel nostro
      ordinamento, del principio del libero convincimento del giudice (sancito
      dall'art. 192
      del codice di procedura penale). L'esistenza di un fatto può essere
      desunta non
      ------------------------------------------------------------------------
      *Page 16*
      
      soltanto dalla prova, ma anche dagli indizi, purché siano gravi, precisi
      e concordanti.
      In realtà, l'art. 192 afferma una regola il fatto non può essere provato
      se non
      attraverso la prova legale -che prevede una sola eccezione: la presenza
      di indizi che
      abbiano le tre caratteristiche sopra accennate.
      Ma la realtà del nostro ordinamento è purtroppo diversa: l'eccezione è
      diventata
      una regola. I procedimenti sono ormai quasi tutti indiziari.
      Che cos'è un indizio? Un fatto desunto dall'esistenza di un altro fatto.
      In pratica, il
      risultato di una deduzione logica. E qui veniamo all'errore, perché
      troppo spesso
      l'indizio non è altro che un sospetto che si è trasformato in un
      indizio, prima di
      trasformarsi ulteriormente in prova. Questo è *un grave vizio
      dell'ordinamento*
      *giudiziario del nostro paese*, capace di portare alle situazioni
      processuali assurde e
      inaccettabili così frequenti nei tribunali italiani.
      Per molti casi clamorosi - piazza Fontana, strage di Bologna, omicidio
      Chinnici,
      comunque per il 60-70 per cento di fatti di straordinaria gravita - si
      sono avute
      decisioni contraddittorie a livello di giudici di merito: non dunque in
      Cassazione, ma
      tra il primo e il secondo grado di giudizio. Sentenze di condanna
      rovesciate in
      pronunciamenti assolutori, sulla base degli stessi elementi in punto di
      fatto. Molto
      spesso, un medesimo quadro probatorio è giudicato in maniera differente e
      diametralmente opposta da due corti diverse: sugli stessi elementi si
      pronunciano in
      maniera contraddittoria i giudici di primo e quelli del secondo grado.
      Ma questo non
      può essere, perché gli elementi di prova devono essere valutati in modo
      uniforme da
      tutti i giudici. In caso contrario, si potrebbe parlare di un fatto
      arbitrario. Certo, in
      presenza di ulteriori elementi che completino, migliorino, rettifichino
      un certo
      quadro, d'accordo sulla possibilità di modificare il verdetto; ma quando
      questo quadro
      è esattamente lo stesso, /allora vuol /dire che c'è qualcosa che non va
      nel sistema delle
      prove e degli indizi. Un qualcosa rappresentato proprio dal principio
      del libero
      convincimento del giudice, in virtù del quale alcuni giudici considerano
      certi indizi
      ne gravi, ne precisi, ne concordanti: altri giudici, invece, si
      pronunciano in senso
      opposto. A questo punto, una serie spaventosa di errori giudiziari
      diventa inevitabile.
      Per quel che mi riguarda, credo purtroppo di aver quanto meno contribuito
      a
      commettere errori giudiziari, nella mia veste di giudice istruttore,
      organo monocratico
      che - secondo il vecchio rito penale — doveva ricostruire la verità nel
      corso della fase
      più difficile, quella della verifica delle prove raccolte dalla polizia
      o offerte dal
      pubblico ministero. Ma, potendo contare su una fortissima personalità,
      non mi è mai
      capitato di venire influenzato dalla polizia o dal pm. Molto spesso,
      anzi, mi è capitato
      di ricostruire un fatto in maniera decisamente diversa da quella seguita
      dal pubblico
      ministero. Perché sono convinto che anche quelle che sembrano verità
      elementari e
      pacifiche debbano sempre essere verificate.
      Esistono rimedi concreti al problema dell'errore giudiziario? A mio
      avviso, il vizio è
      ineliminabile. Al massimo lo si potrà ridurre, puntando verso due
      distinte direzioni.
      ------------------------------------------------------------------------
      *Page 17*
      
      Da un lato, la professionalità del giudice, vale a dire la formazione
      del magistrato, la
      valutazione delle sue capacità, che non consistono soltanto nella
      conoscenza tecnica
      del diritto, ma anche nel saper ricostruire la verità attraverso la
      valutazione critica di
      tutte le prove. Una maggiore professionalità che va però richiesta anche
      ai periti, per
      evitare valutazioni errate capaci di pregiudicare il corretto andamento
      processuale e
      di generare errori giudiziari.
      Dall'altro lato, il *libero convincimento *del giudice: un principio da
      rivedere,
      prendendo spunto da altri sistemi (per esempio, quello anglosassone) nei
      quali la
      deduzione logica non ha valore probatorio, che è riservato invece
      esclusivamente a un
      elenco tassativo, sancito dalla legge. Senza essere esterofili -perché
      anche gli
      ordinamenti degli altri paesi sono caratterizzati da vizi di diverso
      tipo ritengo che la
      possibilità di trasformare in prova un semplice indizio — il più delle
      volte privo di
      qualsiasi rilevanza probatoria — rappresenti un nodo che deve essere
      risolto prima
      possibile. Il rischio che una persona possa essere arrestata sulla base
      di elementi
      labili, che poi possono essere valutati o svalutati» secondo l'umore del
      giudice di
      turno, è una delle circostanze maggiormente deprecabili del nostro
      sistema. Un dato
      che contribuisce ad affievolire la certezza del diritto. Ma l'errore ha
      anche altre radici,
      delle quali si discute molto negli ultimi anni. La più importante è
      l'interpretazione
      della legge contro l'intenzione del legislatore, come conseguenza della
      violazione
      stessa del principio dell'imparzialità del giudice. L'attività politica
      del giudice
      all'inevitabile scontrarsi delle ideologie a scapito della verità e
      dell'uguaglianza dei
      cittadini dinanzi alla legge. L'opinione di Cesare Beccarla circa
      l'arbitrio lasciato ai
      giudici, dal principio del libero convincimento, di orientarsi
      nell'interpretazione delle
      leggi recando le loro filosofie sociali e politiche illuminate: «II
      sovrano sarà il
      legittimo interprete delle leggi, perché è il depositario delle libertà
      di tutti, non il
      giudice il cui ufficio è solo l'esaminare se il tal uomo abbia fatto, o
      non, un'azione
      contraria alle leggi. Non v'è cosa più pericolosa di quell'assioma che
      bisogna
      consultare lo spirito della legge. Questo è un argine rotto al torrente
      delle opinioni.
      Questa verità che sembra un paradosso alle menti volgari più percosse da
      un picciol
      disordine presente che dalle funeste ma remote conseguenze che nascono
      da un falso
      principio radicato in una nazione, mi sembra dimostrata».
      E poi Beccaria traccia il quadro delle storture che derivano da
      un'interpretazione
      legata alle opinioni soggettive dei giudici: «Le nostre cognizioni e le
      nostre idee
      hanno una reciproca connessione: quanto più sono complicate, tanto più
      numerose
      sono le strade che ad esse arrivano e partono. Ciascun uomo ha il suo
      punto di vista,
      ciascun uomo in differenti tempi ne ha uno diverso. Lo spirito della
      legge sarebbe
      dunque il risultato di una buona o di una cattiva logica del giudice, di
      una facile o
      malsana digestione, dipenderebbe dalla violenza delle sue passioni,
      dalla debolezza di
      chi soffre, dalle relazioni del giudice con l'offeso, e da tutte quelle
      minute forse che
      cangiano le apparenze di ogni oggetto nell'animo fluttuante dell'uomo.
      Quindi
      veggiamo la sorte di un cittadino /(colpevole o innocente, N.d.A.)
      /cangiarsi spesse
      volte nel passaggio che fa a diversi tribunali, e le vite dei miserabili
      essere vittime dei
      ------------------------------------------------------------------------
      *Page 18*
      
      falsi raziocini!, o dell'attuale fermento degli umori di un giudice, che
      prende per
      legittima interpretazione il vago risultato di tutta quella confusa
      serie di nozioni che
      gli muove la mente. Quindi veggiamo gli stessi delitti dallo stesso
      tribunale puniti
      diversamente in diversi tempi per aver consultato non la costante e
      fissa voce della
      legge, ma l'errante instabilità delle interpretazioni». Su queste
      tematiche
      dell’ignoranza, dell’errore, della problematica ricerca della verità
      rinvio inoltre
      all’ampia e complessa trattazione svolta benissimo da Francesco Sidoti
      nel suo
      volume /La cultura dell’investigazione/.
      ------------------------------------------------------------------------
      *Page 19*
      
      *Il giusto processo ed i tribunali speciali*
      Il giusto processo, nato in Inghilterra e recepito dalla Costituzione
      americana, sta a
      significare che ogni imputato ha diritto di ricevere un equo
      trattamento, secondo una
      procedura intesa a raggiungere un risultato conforme a giustizia. Le
      radici del giusto
      processo erano nella /Magna Charta /emanata in Inghilterra
      nell'undicesimo secolo per
      restringere il potere del sovrano di agire /legibus solutus/. Nella
      /Magna Charta /si
      afferma «Nessun uomo libero sarà da Noi sovrano catturato e/o
      imprigionato, o
      privato dei suoi beni, oppure esiliato, o in qualunque altro modo
      rovinato, ne noi lo
      perseguiremo o lasceremo che venga perseguito, salvo che mediante il
      legittimo
      giudizio (/Lawfull judgement/) dei suoi pari e in conformità della legge
      del Regno».
      Ricordo l’attualità dei principi del giusto processo in riferimento al
      terrorismo
      internazionale. Che Osama Bin Laden e i terroristi debbano essere puniti
      è fuori
      discussione, assieme a finanziatori, protettori, favoreggiatori dovunque
      essi siano. Ma
      questo deve avvenire evitando di cadere nella trappola della giustizia
      sommaria.
      A preoccupare è la possibile entrata in funzione dei Tribunali militari
      speciali creati
      dal Presidente Bush, il 13 Novembre del 2001, per giudicare i terroristi
      stranieri con
      procedure assai più sbrigative anche della Giustizia militare. Infatti i
      Presidenti ed i
      giurati di queste corti sarebbero nominati dal Ministro della difesa. I
      processi
      potranno essere segreti, e quindi senza alcun controllo da parte della
      pubblica
      opinione per la mancanza di pubblicità. Per la condanna non sarà
      necessaria la prova
      al di là di ogni ragionevole dubbio, bastando la maggioranza dei 2/3 dei
      giurati.
      Possono essere giudicati con queste procedure solo i cittadini non
      americani che
      potranno essere arrestati e portati negli Stati Uniti per essere
      sottoposti a processo.
      Sicché se un terrorista italiano o spagnolo o francese - e dunque non
      americano-
      viene arrestato in Italia, dovrebbe essere immediatamente consegnato
      agli Stati Uniti,
      anche se per lui è prevista la pena di morte. Per la condanna non
      saranno necessarie le
      normali prove legali. Non è previsto né l’appello né il ricorso alla
      Corte Suprema.
      Contro questa scelta, si è schierata una parte dell'Amministrazione USA
      e i due
      maggiori quotidiani americani, il /Washington Post /e il /New York
      Times/, che hanno
      raccolto la proposta di modifiche più garantiste.
      Da notare che le proposte di Tribunali speciali ci riporterebbero al
      Medio Evo del
      diritto e violerebbe tutti i principi del giusto processo. L'idea del
      procedimento
      legittimo o giusto /(faìr) /venne trasfusa nelle Costituzioni statali,
      rappresentando
      l'essenza del /due process of law, /che è stato codificato nella
      Costituzione degli USA.
      Negli Stati Uniti avremmo per i terroristi una giustizia come
      espressione di giudici
      organi del Governo americano e non strumento imparziale di applicazione
      della
      legge. Così come avvenne nell'ordinamento sovietico. Il procuratore
      generale
      dell'Unione Sovietica, Vysinskij, affermò che la giustizia sovietica, e
      cioè i giudici
      ------------------------------------------------------------------------
      *Page 20*
      
      sovietici e non solo i Pubblici Ministeri, erano "un organo effettivo
      della politica
      sovietica". Il giudice sovietico non era dunque l'interprete della
      volontà della legge
      ma un elemento di quella vasta azione che ha nello Stato il suo soggetto
      formale e in
      ogni organo dello Stato - compreso il giudice - il suo soggetto
      sostanziale.
      Il giudice espressione del potere esecutivo, qualunque esso sia, anche
      il più
      democratico, è un giudice-parte: è una mostruosità non solo logica ma
      anche morale.
      Il rischio è che il giudice si ponga di fatto, con false e strumentali
      applicazioni della
      legge, al servizio di una parte, in violazione del principio sovrano che
      pone il giudice
      solo al servizio della legge con la conseguenza che il problema della
      tutela del diritto
      degli imputati alla imparzialità del giudice diventa non facilmente
      solubile poiché
      non si riesce a porre un argine alla giustizia scelta da un Presidente
      che è tenuto a
      rispettare il principio cardine di ogni democrazia della separazione dei
      poteri.
      Per una giustizia garante dello Stato di diritto e di una imparziale
      applicazione della
      legge, i paesi civili non possono rinunciare al giusto processo che è
      figlio della
      libertà. Dal travaglio della libertà sono nati tutti i principi sui
      quali il processo equo si
      regge: si tratta di principi che i romani avevano individuato e scolpito
      in modo
      plastico: la imparzialità del giudice, /nulla poena sine judicio, in
      dubio pro-reo,/
      /audietur et altera pars/, il diritto di difesa sono valori ai quali
      corrispondono /moderni/
      /principi di certezza del diritto, di legalità, del contraddittorio,
      della prova legale, il/
      /diritto ad essere assistito da un difensore in ogni stato e grado del
      giudizio/.
      Questi principi devono essere difesi dall'Europa che sta per nascere e
      riprodotti nella
      nuova carta costituzionale. Tenendo presente che- non è inutile
      ripeterlo- l'esperienza
      della storia di questi anni ha dimostrato che la giustizia sommaria, i
      Tribunali speciali
      militari, la violazione dei diritti di difesa non aiutano a combattere
      il terrorismo ma lo
      rafforzano. *L'Italia ha vinto nella lotta al terrorismo perché *ha
      saputo coniugare la
      fermezza con il rispetto dei diritti civili, schierandosi contro i
      Tribunali speciali, la
      pena di morte e ogni forma di violenza e di pressione contro i
      terroristi. E perché ha
      cercato di combattere il terrorismo ma anche le cause del terrorismo.
      Esistono decine di documenti del terrorismo interno ed internazionale
      che dimostrano
      come obiettivo dei terroristi sia sempre stato e sia tuttora la
      radicalizzazione della
      lotta con le istituzioni, la violazione dei diritti umani, il ricorso
      alla pena di morte. Ma
      quale paura può fare ai terroristi di Al Qaeda la condanna a morte se
      essi la
      affrontano con sprezzo della vita ogni giorno?
      "Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia
      entrata
      in, vigore
      prima del fatto commesso". "/Nullum crimen, nulla poena sine
      legge/". E"
      dunque la
      legge il pilastro su cui si erge l'intera costruzione del diritto penale
      come di ogni altro
      ramo del diritto. Solo dopo avere assunto i principi fondamentali della
      legge,
      possiamo dedicare la nostra attenzione al diritto penale.
      ------------------------------------------------------------------------
      *Page 21*
      
      Nelle democrazie si può proteggere il cittadino dall'oppressione
      attraverso le leggi.
      Là dove viene meno il vigore delle leggi, non vi può essere ne sicurezza
      ne libertà per
      nessuno. Diceva Locke “Dove non c'è legge non c’è libertà”. Dove
      però la
      libertà
      viene intesa non in senso metafisico, della quale si occupala filosofia
      e l'etica, ma in
      senso empirico e pratico (come dice Giovanni Sartori in /Democrazia cosa
      è/)
      Rousseau affermava che la libertà "era fondata dalla legge e nella
      legge". Nel
      discorso sull'Ineguaglianza osservava: "Nessuno di voi è così poco
      illuminato da non
      sapere che là dove viene meno il vigore delle leggi e l'autorità dei
      loro difensori, non
      vi può essere ne sicurezza ne libertà per nessuno". E poi affermò
      "La
      libertà segue
      sempre la sorte delle leggi, essa regna e perisce con queste; nulla mi è
      noto con
      maggiore certezza".
      Ma chi fa le leggi? Certamente non il popolo, anche se esse sono a
      tutela degli
      interessi del popolo. Rousseau si chiese: "Come potrà una
      moltitudine
      cieca, che
      spesso non sa quel che vuole perché solo di rado sa quel che per lei è
      bene, mettere in
      esecuzione da sé una impresa di tanta mole e tanto difficile come un
      sistema di
      legislazione?"
      In concreto il problema, per Rousseau, poteva essere risolto legiferando
      il meno
      possibile. Egli ricordò che gli ateniesi persero la loro democrazia
      perché ciascuno vi
      proponeva leggi a sua fantasia, mentre invece è la antichità delle leggi
      che le rende
      sante e venerabili. "Lo Stato ha bisogno di ben poche leggi".
      Rousseau
      concludeva
      che "dal momento che la costituzione del Vostro Stato ha assunto una
      forma definita
      e stabile, le vostre funzioni di legislatore sono terminate".
      Il punto è dunque che le leggi di Rousseau sono poche, generalissime,
      fondamentali,
      antiche e pressoché immutabili Leggi supreme. Nel contratto sociale egli
      invoca un
      legislatore -un Mosé, un Licurgo, un Numa- e cioè un uomo straordinario
      nello Stato
      che assolve una funzione particolare e superiore che non ha niente in
      comune col
      regno umano. Rousseau non pensava affatto ad "un popolo legiferante,
      facitore di
      leggi". Per lui il popolo doveva essere "giudice e custode delle
      leggi."
      Ma - dice Sartori (ancora in /Democrazia cosa è /)- le leggi non sono
      fatte dalla
      volontà generale e non sono fatte una volta per sempre, ma sono sempre
      da fare. E
      aggiunge che non sempre la legge è una normativa caratterizzata da
      contenuti di
      giustizia. Per millenni si è ritenuto che la legge dovesse incorporare
      valori di
      giustizia. In realtà la legge è /Ius /dalla radice /iubeo/, comando, il
      quale può non avere
      contenuti di giustizia. Il fondamento di tutte le leggi vigenti in un
      determinato
      ordinamento è la Costituzione, che in ogni paese dovrebbe essere garante
      di libertà.
      Non si può accettare un concetto formalistico di legge costituzionale
      che sempre ed in
      ogni paese sia garante di libertà Perché la storia ci insegna che così
      non è. La
      Costituzione di Hitler e quella di Stalin. pur essendo leggi, non hanno
      tutelato la
      libertà. Ed allora dobbiamo accedere ad una concezione garantista di
      Costituzione. Il
      ------------------------------------------------------------------------
      *Page 22*
      
      nesso tra libertà e legge perde così la certezza che lo ha cementato per
      millenni. Nulla
      vieta che il tiranno eserciti la sua tirannide in nome della legge e
      mediante ordini
      travestiti da leggi. Anche nei nostri sistemi assistiamo a sviluppi
      degenerativi
      facilitati dal formalismo giuridico.
      Anche quando si tende a inserire nella legge i valori etici ed a
      tutelare l'interesse
      generale, l'obiettivo spesso non viene raggiunto perché la pletora delle
      leggi e la loro
      confusione impedisce alle leggi di essere conosciute e comprese dai
      destinatari, siano
      essi cittadini che come organi dello Stato. "*I nostri legislatori
      *di
      diritto sanno poco o
      nulla", conclude Sartori. Eppure, essi governano legiferando. La
      legge
      viene così
      sciupata per quattro rispetti: l’inflazione, la cattiva qualità, la
      perdita di certezza e la
      perdita di generalità. Si tratta di leggi nel nome ma di non leggi nella
      sostanza.
      Davvero un orrendo pasticcio la cui prima conseguenza è una
      proliferazione che
      perciò stesso svaluta le leggi. “Ai nostri legislatori la chiarezza
      delle leggi e la
      coerenza del sistema legale nel suo insieme, importano poco o nulla”. In
      verità
      neppure i giuristi hanno dato prova di saper fare buone leggi, se si
      tiene presente ciò
      che è successo con il nuovo processo penale e con le leggi speciali che
      si
      sovrappongono e si contraddicono. La certezza del diritto viene meno
      perché il
      continuo mutamento dello stato delle leggi rende i comandi poco
      affidabili. E' il caso
      della concessione continua di condoni che danneggia coloro che hanno
      osservato la
      legge pagando sanzioni pecuniarie o detentive, penalizzati di fronte a
      chi tali sanzioni
      si vede condonate dallo Stato.
      Le leggi sono sempre più settoriali, parziali e mutevoli favorendo alcuni
      e
      danneggiando altri. Oggi l'edificio della libertà nella legge è
      sostenuto dai diritti
      umani e cioè dalla sua conformità a quei diritti. Le leggi sul condono
      edilizio sono
      l'emblema della degenerazione delle leggi intese come comando.
      ------------------------------------------------------------------------
      *Page 23*
      
      *Il giusto processo in Europa*
      Il 2000 segna una tappa fondamentale sul futuro e sulle prospettive di
      libertà,
      sicurezza e giustizia in Europa, che sarà il luogo in cui avviare una
      politica comune
      nel campo della giustizia e della sicurezza, terzo pilastro dell'Unione
      Europea ed
      elemento indispensabile per una effettiva cittadinanza comunitaria.
      L’Europa del terzo millennio non sarà soltanto l'area dell'Euro ma
      anche uno
      spazio di cittadinanza comune, una vasta regione del mondo dove Ì
      cittadini e gli
      stranieri regolarmente presenti, circolano liberamente, sono meglio
      protetti dalla
      criminalità organizzata e beneficiano di una giustizia più efficiente,
      grazie ad un
      grado più elevato di coordinamento e di integrazione tra gli apparati di
      controllo e
      giudiziari dei singoli stati.
      Il primo nucleo di questo spazio europeo di libertà, sicurezza e
      giustizia è
      rappresentato dall'insieme delle norme e delle decisioni adottate in
      questi anni in
      attuazione del Trattato Shengen e del Trattato di Amsterdam.
      Bisogna sottolineare l'importanza storica del fatto che per la prima
      volta,
      l'elaborazione di indirizzi e principi comuni ai paesi europei in
      materia di asilo, lotta
      alla criminalità e giustizia; avviene non più in ambito intergovernativo
      ma nel quadro
      istituzionale della Unione Europea, che ha il dovere di darsi una
      strategia, se non
      vuole essere travolta dall’ illegalità diffusa, dal terrorismo e dal
      mancato rispetto dei
      diritti umani.